Ultimo aggiornamento: 25 settembre 2025
Capire il cancro significa tenere conto non solo delle differenze biologiche tra maschi e femmine, ma anche dei comportamenti e dei ruoli di genere.
Rispetto ai tumori, uomini e donne non condividono lo stesso livello di rischio né la stessa traiettoria: per la maggior parte dei tumori non riproduttivi nei due sessi differiscono l’incidenza delle malattie, la loro progressione e la risposta alle cure. Eppure, nella pratica clinica e nella ricerca queste differenze non sono ancora considerate in maniere adeguata. In un articolo appena uscito sulla rivista Nature Reviews Cancer, il neuroscienziato e oncologo Joshua B. Rubin, della Washington University a St. Louis, in Missouri, propone di superare queste lacune e studiare in maniera sistematica le interazioni tra sesso biologico e genere, con l’obiettivo di migliorare diagnosi e cure nel segno di una medicina sempre più precisa e mirata.
Perché esistono queste differenze? Nel corso dell’evoluzione la selezione naturale e quella sessuale hanno plasmato maschi e femmine in modi diversi, e non solo per quanto riguarda gli organi riproduttivi. In molte specie i maschi hanno dimensioni corporee maggiori o tratti ornamentali (come la coda del pavone), mentre nel corpo delle femmine di numerose specie si trovano strutture utili a investire risorse, nella gestazione e nella cura della prole. Inoltre, le pressioni hanno portato a differenze nel metabolismo, nella crescita e nella riparazione delle cellule.
Anche nella nostra specie, dove il dimorfismo sessuale è meno marcato che in altre specie, le differenze sono sostanziali. A pochi giorni dal concepimento gli embrioni dei maschi umani hanno più cellule, sono più grandi e consumano più energia di quelli delle femmine. Un’altra differenza importante riguarda il cromosoma X, di cui le femmine hanno due copie e i maschi una. Ciò potrebbe comportare una doppia dose di alcuni geni nelle femmine rispetto ai maschi, ma la natura ha fatto in modo che numerosi geni di uno dei due cromosomi X siano presto inattivati nel corso dello sviluppo femminile. Alcuni geni però sfuggono a tale inattivazione e rimangono attivi in doppia copia: tra questi ci sono importanti oncosoppressori.
Contribuiscono anche i mitocondri, che ognuno eredita dalla madre: mutazioni che non hanno effetti negativi nelle femmine possono rivelarsi dannose nei maschi. Si aggiunge la regolazione ormonale: estrogeni e androgeni influenzano non solo la riproduzione ma anche i processi di riparazione del DNA, il metabolismo e l’infiammazione.
Sono diversità che ci accompagneranno per tutta la vita, e che possono fare la differenza quando parliamo di malattie come il cancro.
Ma a influenzare il rischio di cancro, in particolare per aspetti che hanno a che fare con la ricerca e la gestione della malattia, vi è anche il genere, ovvero il complesso di modelli culturali e sociali che condizionano il ruolo e il comportamento a seconda del sesso. Per esempio, nel 1775 il chirurgo britannico Percivall Pott descrisse il primo tumore occupazionale, il cancro allo scroto che si sviluppava nei giovani spazzacamini a causa dell’esposizione alla fuliggine. Si tratta di uno dei primi studi epidemiologici della storia, al quale ne sono seguiti numerosi altri, a partire dagli inizi del Novecento, chiarendo la relazione tra l’esposizione ad altri carcinogeni, per esempio il fumo, e numerosi tipi di tumore. I primi studi riguardavano principalmente gli uomini, dato che solo loro svolgevano determinati lavori, e inizialmente erano gli uomini ad avere iniziato a fumare in massa, grazie alle sigarette distribuite gratuitamente ai soldati nella Prima guerra mondiale.
Oggi il genere continua a influenzare l’esperienza oncologica: le donne, per esempio, spesso ricevono una diagnosi più tardi rispetto agli uomini, con possibili ricadute sull’efficacia dei trattamenti. Una delle cause di questo ritardo può essere un diverso approccio clinico: alcuni sintomi non specifici nelle donne vengono più facilmente interpretati come segnali di disturbi benigni, con il risultato che le pazienti arrivano allo specialista in una fase più avanzata della malattia. Per anni, inoltre, la partecipazione femminile alle sperimentazioni cliniche è stata molto bassa, per evitare loro possibili danni all’apparato riproduttivo. Ciò è avvenuto in particolare sull’onda dello scandalo della talidomide, il farmaco tossico per il feto per cui erano nati decine di migliaia di bambini focomelici. Per questo nel 1977 la FDA aveva addirittura escluso le donne dagli studi di fase 1. Da un lato, questo atteggiamento ha protetto le potenziali volontarie da possibili rischi per la salute che si corrono quando si prende parte a una sperimentazione clinica; dall’altro lato questa decisione ha privato la ricerca di dati utili per la salute delle donne. C’è poi un altro problema: probabilmente, tra chi ha preso tale decisione c’erano poche rappresentanti del genere femminile, che ha avuto così scarsa voce in capitolo. Nel 1993 la FDA è tornata sui propri passi, ma la sotto-rappresentazione delle donne nelle sperimentazioni cliniche è ancora un problema.
Per Rubin, non è utile pensare agli effetti del sesso sulla biologia del cancro in maniera dicotomica: le differenze, in realtà, si distribuiscono in modo continuo. Come succede con l’altezza: gli uomini sono in media più alti delle donne, per via di fattori genetici e ormonali, ma ogni individuo si colloca in un punto preciso di uno spettro ampio. Analogamente, cellule e tessuti non sono mai identici all’interno delle persone dello stesso sesso, e il genere può sottoporre ogni individuo a condizioni che ne influenzano alcune caratteristiche.
Un esempio viene dal metabolismo. Le femmine tendono ad accumulare più grassi e a consumarli in caso di bisogno al posto di zuccheri e proteine. Si tratta di una strategia che si è affermata nel corso dell’evoluzione, permettendo di sopravvivere e portare avanti la gestazione e l’accudimento dei piccoli anche in condizioni di carestia. I maschi, invece, utilizzano più glucosio e proteine per sostenere la massa muscolare, ma questo aumenta la mortalità per il loro sesso in caso digiuno prolungato. Parte di queste differenze è definita precocemente nello sviluppo, mentre altre possono essere condizionate dalla dieta, che a sua volta può essere influenzata dal genere.
Differenze di questo tipo si osservano anche in oncologia: in uno studio con pazienti con glioblastoma, l’analisi di 75 metaboliti del glucosio ha mostrato difformità complessive tra i due gruppi di maschi e femmine studiati, con valori medi più elevati negli uomini, seppure distribuiti lungo uno spettro continuo con ampie sovrapposizioni.
Le interazioni tra sesso e genere contribuiscono a definire il fenotipo del cancro, cioè le sue caratteristiche e il suo comportamento a livello individuale. Studiarle in modo sistematico potrebbe quindi avere delle ricadute utili sulle terapie. Il condizionale è d’obbligo, perché al momento i dati in merito sono insufficienti. Secondo Rubin, in medicina persiste “un livello dannoso di ignoranza e pregiudizio” verso lo studio rigoroso di sesso, genere e delle loro interazioni.
Rubin propone allora di:
Non sappiamo ancora quanto il legame fra sesso e genere possa fare la differenza nella pratica oncologica. Ma esistono già le condizioni per scoprirlo: migliorando la qualità dei dati, pianificando studi prospettici mirati e integrando l’attenzione a sesso e genere in tutto il percorso della ricerca e dell’assistenza.
A partire dal 2025, gli studi su diversità, equità e inclusione, tra cui anche le ricerche su sesso e genere in medicina, sono stati interdetti negli Stati Uniti. Toccherà dunque ad altri Paesi proseguire su questo cammino di ricerca che purtroppo là è, almeno per il momento, interrotto.
Stefano Dalla Casa