Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Dopo l'incidente che, qualche mese fa, è costato la vita a una persona, molti pazienti sono timorosi nell'accettare di entrare in uno studio farmacologico di fase 1. Vediamo perché in oncologia le cose sono diverse dal resto della medicina e che cosa sta cambiando in questo settore della ricerca.
L'incidente ha trovato spazio nelle prime pagine dei media di tutto il mondo: il 17 gennaio, in Francia, un uomo è morto e altri cinque hanno avuto gravi conseguenze (soprattutto danni cerebrali) a causa degli effetti collaterali di un antidolorifico sperimentale che era stato somministrato loro nell'ambito di una sperimentazione di fase 1. Le indagini effettuate si sono concluse, in aprile, con un rapporto ufficiale che imputa alla nuova molecola la morte dello sfortunato volontario sano. Ma la vicenda ha avuto ripercussioni molto gravi, perché ha gettato nell'inquietudine le molte persone che, in tutto il mondo, prendono parte ai trial clinici, e ha compromesso un'informazione che, almeno in ambito oncologico, si cerca di far passare da anni: dove si fa ricerca si cura meglio, e partecipare agli studi in prima persona significa aumentare le proprie chance di sconfiggere la malattia. "È ancora vero?" si chiede parte dell'opinione pubblica, i cui dubbi sono alimentati anche dalle molte e spesso confuse notizie che circolano in rete.
Fondamentale ha chiesto aiuto a uno dei massimi esperti italiani del campo, Francesco Perrone, che dirige, a Napoli, l'Unità di sperimentazioni cliniche dell'Istituto nazionale dei tumori G. Pascale. E lo ha invitato a spiegare innanzitutto che cosa è, oggi, un trial clinico di fase 1, e perché mantiene intatta tutta la sua importanza: "Sgombriamo subito il campo da un equivoco di fondo: in oncologia non si fanno studi di fase 1 con volontari sani, ma solo con persone già ammalate. Spesso, si tratta di pazienti che non rispondono più alle cure disponibili, e questa è una caratteristica cruciale, da tenere sempre a mente. Venendo al merito, invece, bisogna ricordare che un tempo in questa fase si sperimentavano farmaci di cui si conosceva pochissimo, a cominciare dal meccanismo d'azione, in pazienti del cui tumore si sapeva ancor meno in termini molecolari; in quel contesto non più del 5% dei malati ne traeva qualche beneficio. Lo scopo della fase 1 è infatti verificare per la prima volta se una certa terapia, sperimentata negli animali e studiata in ogni altro modo possibile, sia o meno sicura per l'uomo, e non analizzarne un eventuale effetto terapeutico. Oggi però la situazione è profondamente cambiata, perché verifichiamo farmaci di cui conosciamo quasi sempre ogni caratteristica, e studiamo il profilo molecolare e genetico dei tumori in modo da proporre lo studio solo ai pazienti per i quali si presume che il farmaco possa funzionare. In questo modo le probabilità per i pazienti di avere un beneficio aumentano e, in media, oggi risponde il 25% dei pazienti. Il cambiamento è dunque radicale. Inoltre le terapie oggi sono meno tossiche, e gli stessi malati approdano a questi protocolli spesso in condizioni migliori rispetto a quanto non avvenisse una decina di anni fa".
Non è affatto un caso, prosegue Perrone, che quando lo studio viene pubblicato ci siano ormai quasi sempre indicazioni anche sulla risposta terapeutica (cioè sull'efficacia della cura), che pure - lo sottolinea sempre - non è l'obiettivo primario delle fasi 1, e che questi trial, che un tempo coinvolgevano poche decine di malati, oggi ne arruolino anche parecchie centinaia.
Per rendere le fasi 1 ancora più utili, poi, secondo l'esperto bisognerebbe introdurre quella che è la norma in tutti gli studi di fase successiva: il confronto con gruppi di controllo, siano essi trattati con la cura di riferimento in quel periodo, oppure con un placebo o, come accade in alcuni casi, con la migliore delle cure di supporto disponibili per quei pazienti (cioè cure che sostengono lo stato generale dell'organismo ma non agiscono contro il tumore). La cosiddetta Best Supportive Care andrebbe, infatti, usata come alternativa agli studi di fase 1 in cui i partecipanti non rispondano più alle altre cure. In questo modo si avrebbero in fretta anche informazioni affidabili sull'efficacia dei nuovi farmaci. "Oltre a questo importantissimo aspetto" aggiunge Perrone, "va ricordato che le condizioni di somministrazione della terapia sono estremamente controllate, così come tutti i parametri del malato: in questo senso, è sempre valido l'assunto che dove si fa ricerca si cura meglio".
Ci sono anche altri aspetti più generali che Perrone vuole sottolineare. Spiega infatti: "L'Italia da molti anni non è più sede di grandi aziende farmaceutiche, che oggi sono le uniche in grado di sostenere i grandi trial clinici. Se però riesce a essere coinvolta nelle fasi 1, avrà maggiori probabilità di accedere anche alle successive fasi di sperimentazione e poi al farmaco eventualmente approvato in tempi rapidi. Condurre le fasi 1 è insomma uno dei pochi modi che abbiamo per restare al centro della ricerca internazionale, anche se non abbiamo perso la speranza che enti indipendenti ricomincino a fare ricerca di questo tipo in modo più incisivo".
E forse anche per questo scopo l'Italia, anche attraverso l'AIFA, si è data un nuovo regolamento, che dovrebbe entrare in vigore ai primi di luglio, e che costituirà una sorta di certificazione di eccellenza ai centri che conducono le fasi 1. Da quel momento essi diventeranno i soli autorizzati a farlo, come spiega ancora Perrone: "Oggi per condurre uno studio clinico è necessario disporre di una struttura che compia test e analisi genetiche, e non solo, proprio per selezionare i malati dal punto di vista molecolare e seguire ciò che succede durante una terapia anche da questo punto di vista. È giusto, quindi, che solo le strutture attrezzate per rispondere a elevati standard internazionali possano condurre le fasi 1. Probabilmente in un primo momento ci sarà qualche difficoltà, perché i controlli e i requisiti richiesti sono impegnativi. Ma dopo un periodo di assestamento, quasi sicuramente la ricerca sulle fasi 1 tornerà a crescere, sperando che resti, come è oggi, abbastanza soddisfacente dal punto di vista della diffusione geografica".
Questa strategia potrebbe essere vincente anche da un altro punto di vista.
La Food and Drug Administration statunitense e la European Agency for Medicine, anche sulla spinta delle nuove immunoterapie, stanno introducendo via via nuove procedure di approvazione che, in alcuni casi, prevedono il via libera anche solo dopo una fase 1, al fine di far arrivare ai malati, specie se in condizioni critiche, le terapie efficaci il prima possibile, soprattutto quando non vi sono alternative.
"Per questo le fasi 1 stanno diventando molto importanti" commenta Perrone, "anche se è a maggior ragione indispensabile vigilare per evitare approvazioni premature".
L'AIFA (Agenzia italiana per il farmaco) dà definizioni molto precise delle diverse fasi cliniche della ricerca su un farmaco. Eccone una sintesi:
Ha inizio con lo studio di fase 1 la sperimentazione del principio attivo sull'uomo, che ha lo scopo di fornire una prima valutazione della sicurezza e tollerabilità del medicinale. L'obiettivo principale è la valutazione degli effetti collaterali attesi considerando i risultati delle precedenti sperimentazioni sugli animali e la valutazione della modalità di azione e distribuzione del farmaco nell'organismo. I volontari vengono divisi in più gruppi, ciascuno dei quali riceve una diversa dose di farmaco (in genere crescente), per valutare gli effetti della sostanza in relazione alla quantità somministrata. Se oggetto della sperimentazione sono gravi patologie (per esempio tumori), questi studi possono essere condotti direttamente su pazienti. Se il farmaco dimostra di avere un livello di tossicità accettabile rispetto al beneficio previsto (profilo beneficio/rischio) si può passare alle successive fasi.
Nello studio di fase 2 si valuta la capacità del farmaco di produrre sull'organismo umano gli effetti curativi desiderati e si cerca di capire quale sarà la dose migliore da sperimentare nelle fasi successive, determinando anche l'effetto in relazione ad alcuni parametri (come la pressione sanguigna). Negli studi di fase 2 la sostanza è somministrata a volontari affetti dalla patologia per cui il farmaco è stato pensato. Le persone arruolate vengono divise in più gruppi, a ciascuno dei quali è somministrata una dose differente del farmaco e, quando è eticamente possibile, un placebo.
Nella fase 3 vengono arruolati centinaia o migliaia di pazienti. L'efficacia del farmaco sui sintomi, sulla qualità della vita o sulla sopravvivenza è confrontata con un placebo, con altri farmaci già in uso o con nessun trattamento. Si tratta di un tipo di studio in cui ai pazienti viene assegnato casualmente il nuovo principio attivo o un farmaco di controllo (in genere il trattamento standard per quella specifica patologia oggetto della ricerca). La durata della somministrazione del farmaco è variabile a seconda degli obiettivi che la sperimentazione si pone, ma in genere dura dei mesi. Il periodo di monitoraggio degli effetti del farmaco è invece spesso più lungo, arrivando in qualche caso a tre-cinque anni.
Agnese Codignola