In viaggio nella ricerca con Gabriele Zoppoli

In viaggio nella ricerca con Gabriele Zoppoli

Gabriele con il suo team lavora allo sviluppo di un sistema integrato di diagnosi precoce e non invasiva del tumore del seno, in cui sfrutta l’intelligenza artificiale. L’obiettivo è anche poter evitare la biopsia alle donne con lesioni molto piccole che nella maggior parte dei casi si rivelano benigne.

Gabriele Zoppoli, medico e ricercatore

Mi chiamo Gabriele Zoppoli, ho 41 anni, sono un medico e ricercatore.

Come medico, all’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova, mi occupo soprattutto di malattie oncologiche, in particolare del tumore della mammella. Seguo sia le donne con malattia avanzata che convivono con il cancro sia quelle che lo hanno superato, le cosiddette survivor, che non hanno più la malattia, ma devono essere seguite nel tempo.

Allo stesso tempo, anche grazie al contributo di Fondazione AIRC, coordino un laboratorio e un gruppo di ricercatori del San Martino e dell’Università di Genova, dove tra l’altro insegno Semeiotica al terzo anno del corso di laurea in Medicina.

Il nostro gruppo di ricerca studia biomarcatori ultra-precoci o non invasivi (o entrambe le cose) che possono essere prelevati dal sangue, dall’urina o dalla saliva. Si tratta di sostanze facili da ottenere attraverso semplici prelievi che non danno particolare fastidio ai pazienti. Riteniamo che tali molecole possano essere usate come marcatori per la diagnosi anche molto precoce di alcuni tipi di cancro, per ottenere indicazioni sulla prognosi e la predizione nelle malattie oncologiche.

Nel progetto su cui stiamo lavorando grazie ad AIRC ci occupiamo di un’applicazione specifica di questo approccio: cioè di usare i marcatori per stabilire quando è realmente necessario sottoporre una donna alla biopsia dopo che la mammografia ha rilevato un nodulo sospetto per cancro al seno.

A oggi, quando alla mammografia si rileva una lesione sospetta, è necessario sottoporre la donna a biopsia, cioè al prelievo di un piccolo campione di tessuto direttamente dal nodulo. È un esame fastidioso, a volte doloroso, che comporta un’attesa con un grande carico di ansia. Soprattutto in considerazione del fatto che in circa due casi su tre la biopsia dà un esito negativo ed esclude che ci sia un tumore.

Se potessimo capire a priori qual è quel caso su tre, in cui la biopsia è realmente necessaria, disporremmo di uno strumento importante per migliorare il processo diagnostico.

È quello che stiamo cercando di fare con il nostro studio clinico denominato RENOVATE: a oggi abbiamo coinvolto quasi 300 donne. Nel momento in cui sono convocate per sottoporsi alla biopsia, abbiamo chiesto loro di donare quattro provette di sangue periferico e una di urine.

Su queste provette, anche con l’aiuto di sistemi di intelligenza artificiale, cerchiamo sostanze rilasciate dal tumore che ci permettano di distinguere i casi in cui c’è una neoplasia, anche molto piccola, dalle forme benigne nelle quali si può evitare la biopsia.

Speriamo che grazie a questo sistema, in futuro, attraverso un semplice prelievo di sangue si possa dare una risposta tempestiva alle donne, sgombrando in pochi giorni il sospetto di tumore o invitandole, quando è necessario, a sottoporsi alla biopsia di approfondimento. Se così fosse potremmo risparmiare tempo, esami inutili con un grande carico di ansia e fastidi. E anche ridurre i costi per il servizio sanitario.

Partire e tornare grazie ad AIRC

Aggressivo ma sempre col sorriso: così deve essere secondo me l’approccio ideale alla ricerca. È una delle lezioni che ho tratto dalle mie due esperienze all’estero.

La prima è stata, negli Stati Uniti, tra il 2008 e il 2009. Avevo 27 anni e mi sono ritrovato nel tempio della ricerca pubblica americana, ai National Institutes of Health (NIH), a Bethesda, a circa 15 chilometri a nord di Washington. Si tratta di un ente con risorse ingenti, dove si fa ricerca ai più alti livelli.

Agli NIH studiavo il possibile legame tra migliaia di composti e il cancro con un approccio computazionale, nel laboratorio diretto da Yves Pommier. Fu così che scoprimmo una proteina, denominata SLFN11 o Schlafen-11 (la parola schlafen è tedesca e significa ‘dormire’) e con un’interessante caratteristica: le cellule che ne erano ricche erano particolarmente sensibili ad alcune terapie antitumorali che funzionano danneggiando il DNA.

È stato proprio il danno al DNA il tema del mio primo progetto sostenuto da AIRC con un My First Airc Grant. Grazie a esso, nel 2009, sono rientrato all’Università di Genova, dove il professor Alberto Ballestrero, con cui avevo svolto il dottorato, mi ha accolto a braccia aperte. È stato lui che, dopo qualche anno a Genova, mi ha consigliato di fare una nuova esperienza all’estero: questa volta per approfondire il tumore del seno.

È cominciata così la mia seconda esperienza fuori dall’Italia, all’Institut Jules Bordet di Bruxelles, dove si trova il gruppo guidato da Martine Piccart, da molti considerata la ‘regina’ dell’oncologia mammaria in Europa. Il mio supervisore in quel laboratorio era Christos Sotiriou. Sono tornato in Italia dopo due anni, nel 2015, e da allora sono a Genova.

Dall’estero ho portato molto. Competenze, sicuramente. Ma anche un approccio diverso alla ricerca.

Innanzitutto ho maturato la consapevolezza che il modo ideale di condurre la ricerca deve essere aggressivo, sì, ma col sorriso. Le grandi soddisfazioni, nel lavoro degli scienziati, non sono frequenti. Si esclama “Wow!” per una scoperta una volta ogni tre-cinque anni. È quindi necessario tenere duro, perseverare. Proprio per questa ragione è necessario il sorriso nella quotidianità, i buoni rapporti nel gruppo, un ambiente gradevole. Tutto ciò finisce anche per far aumentare la produttività.

Ed è per questo che due anni fa ho deciso di donare un tavolo da ping pong al Dipartimento. Il suono della pallina oggi risuona spesso nel Dipartimento di Medicina interna e Specialità mediche (DiMI) dove si trova il nostro laboratorio. E sono certo che non sia una perdita di tempo.

L’esperienza all’estero mi ha fatto anche capire quanto sia importante essere disposti a mettersi in gioco. E infine quanto sia decisivo avere qualcuno che creda in te. Io ho trovato il mio primario che mi ha sostenuto in tutto, e AIRC, che ha permesso il mio ritorno in Italia.

Da ricercatore posso dire che AIRC è riuscita a creare un sistema di finanziamento e valutazione della ricerca che funziona estremamente bene, basato solamente sul merito. Per i ricercatori come me, è fantastico sapere di essere valutati da altri scienziati solo sulla base della qualità del proprio progetto. Ed è un approccio che funziona, come dimostrano la qualità e i risultati degli studi sostenuti da AIRC.

Il laboratorio, l’ambulatorio, il reparto e le aule universitarie prendono molto tempo. Ma nella vita di Gabriele c’è anche altro: una moglie, una bimba di poco più di un anno e una passione abbastanza singolare. Vi racconteremo di tutto questo nel prossimo episodio dedicato a Gabriele Zoppoli.

Tra piante singolari e famiglia

Il sabato pomeriggio, dalle 2 alle 5, ho un impegno fisso: i corsi di nuoto della mia bambina. Tre ore in acqua con la bimba, che rappresentano un po’ il modo per recuperare l’assenza della settimana.

Rei ha poco più di un anno. È una bimbetta fantastica. Ma non è facile conciliare lavoro e famiglia per due genitori impegnati nella ricerca. La soluzione, per ora, è un gioco di equilibrismo: tata la mattina, un aiuto dalla famiglia il pomeriggio e, finalmente, alla sera arriviamo io e mia moglie. Non nego che si senta un po’ di senso di colpa.

Dopo il suo arrivo, con mia moglie stiamo finalmente cercando di recuperare una vita. Siamo sposati dal 2018 e proprio in questi giorni abbiamo festeggiato dieci anni da quando stiamo insieme.

Fuori dal laboratorio, però, non c’è solo la famiglia. Ho molti interessi. Quello che mi prende più tempo e attenzione è certamente la passione per le piante carnivore e per quelle difficili da crescere. I miei tentativi comprendono alcune orchidee nane giapponesi, piante carnivore di alta quota, aroidi asiatici, che sono tuberi giganti con fiori vistosissimi e dall’odore tremendo, piante di palude e felci mirmecofile, che cioè in natura stabiliscono un rapporto di mutualismo con le formiche. Si tratta di piante che non si riesce a far crescere bene senza un impegno molto intenso.

È un hobby che richiede tempo e attenzione. Negli ultimi tre anni ho scritto anche un articolo per la rivista dell’Associazione Italiana delle Piante Carnivore, in cui ho descritto la costruzione di nanoambienti climatizzati controllati al computer per mimare le condizioni climatiche di un qualunque posto della Terra ottenuto semplicemente inserendo le coordinate.

È difficile dire come sia nata questa passione: forse da una visita a Euroflora nel 1992, la rassegna floreale che si svolge periodicamente a Genova. In ogni caso il verde mi è sempre piaciuto, anzi: ho l’orrore di vivere nel grigio.

È probabile che sia cominciata proprio così: avevo bisogno di mettere del verde in casa. Poi, è iniziata la ricerca di alternative meno comuni, così ho iniziato a studiare e là si è aperto un mondo che mi ha completamente assorbito.

Oltre alle piante, mi piace la molto musica: ho suonato a lungo la chitarra classica. E poi andare nella natura, camminare, l’arte, leggere.

Sono anche appassionato di culture diverse dalla nostra. Quella giapponese, per esempio. Non è un caso che mia figlia si chiami Rei, che in giapponese significa splendore. O la storia della conquista della meso-America: mi affascina vedere quello che avvenne quando gli spagnoli incontrarono le popolazioni indigene. L’incontro-scontro tra due culture completamente aliene. Così diverse da non riuscire, apparentemente, a trovare nessun punto di incontro, eppure a creare, nei secoli, la straordinaria cultura di sincretismo messicano.

Pensandoci bene, fondamentalmente, mi interessa qualunque cosa! Ed è questa la bellezza della realtà: che non esiste una sola realtà, esistono infinite realtà. Non si può finire di scoprirne di nuove. L’unico limite è il tempo disponibile.

Il tumore del seno è oggi la neoplasia più frequentemente diagnosticata nella popolazione italiana, ma è sempre più curabile. Ne esistono diversi tipi; in generale è possibile ridurre il proprio rischio di ammalarsi aderendo ai programmi nazionali di screening e assumendo comportamenti salutari, come per esempio mantenere un peso nella norma, svolgere attività fisica, evitare il consumo di alcolici e alimentarsi con pochi grassi e molti vegetali. Per saperne di più