Ultimo aggiornamento: 25 giugno 2025
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Il cancro del seno colpisce gli organi posti tra la pelle e la parete del torace, costituiti da tre tipi di tessuto: quello ghiandolare, quello connettivo e quello adiposo. Le strutture ghiandolari, chiamate lobuli, sono unite tra loro a formare un lobo. In età adulta, in un seno sono presenti da 15 a 20 lobi. Il latte giunge al capezzolo dai lobuli attraverso piccoli tubi chiamati dotti galattofori (o lattiferi). Il tumore del seno (o della mammella) è una malattia potenzialmente grave se non è individuata e curata per tempo. Esso è dovuto alla moltiplicazione incontrollata di alcune cellule del seno che si trasformano in cellule maligne e acquisiscono la capacità di staccarsi dal tessuto che le ha generate e invadere quelli circostanti e, col tempo, anche organi più lontani. In teoria tutte le cellule presenti nel seno possono dare origine a un tumore, ma nella maggior parte dei casi il cancro ha origine dalle cellule ghiandolari (dai lobuli) o da quelle che formano la parete dei dotti galattofori.
L'oncologa medica Lucia Del Mastro parla del tumore della mammella e dei progressi della ricerca su questa malattia.
Secondo i dati riportati nel rapporto I numeri del cancro in Italia 2024, a cura dell’Associazione italiana registri tumori (AIRTUM), dell’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM), di Fondazione AIOM e di PASSI, il tumore della mammella resta la neoplasia più frequente in Italia.
Con oltre 53.000 nuove diagnosi nel 2024, questo tumore rappresenta il 30,3% di tutti i tumori che hanno colpito le donne in Italia nello stesso anno e il 14,6% di tutti i tumori diagnosticati nel Paese.
L’incidenza, ovvero il numero di nuovi casi in un periodo di tempo definito, del tumore della mammella è in leggera crescita soprattutto nelle donne più giovani. Nonostante ciò, nelle donne tra i 20 e i 49 anni si è registrata una diminuzione complessiva della mortalità per questa neoplasia del 16,2% nel periodo 2006-2021, anche se questo tipo di cancro rimane la prima causa di morte per tumore nelle donne (il 31%).
Vi sono diversi fattori di rischio per il tumore della mammella, alcuni dei quali sono modificabili perché agendo su di essi si può ridurre il rischio di sviluppare il cancro, mentre altri non possono essere modificati.
I fattori di rischio non modificabili includono:
Molti fattori di rischio modificabili sono legati ad abitudini e comportamenti. Tra questi il sovrappeso e l’obesità, spesso legati a un’alimentazione ricca di grassi e zuccheri raffinati e povera di frutta e verdura, oltre al consumo di alcol e al fumo.
Esistono numerosi tipi di tumore del seno e sono diversi anche i possibili metodi utilizzati per classificare queste malattie.
Nella maggior parte dei casi si tratta di carcinomi, ovvero di tumori che prendono origine da cellule epiteliali. Il carcinoma duttale si sviluppa a partire dalle cellule dei dotti galattofori e può poi diffondersi anche oltre la parete del dotto stesso. Rappresenta l'80% di tutte le diagnosi di tumore mammario. Il carcinoma lobulare parte invece dal lobulo e si può estendere oltre la sua parete al tessuto circostante. Rappresenta il 10-15% di tutti i tumori mammari e può colpire contemporaneamente entrambi i seni o comparire in più punti nello stesso seno. Altre forme di carcinoma meno frequenti sono il carcinoma tubulare, quello papillare, quello mucinoso e quello cribriforme. Sono in grado di dare metastasi ed hanno prognosi in genere favorevole.
A differenza di quelli sopra elencati, il carcinoma intraduttale in situ è invece una forma tumorale non invasiva (o pre-invasiva) e con prognosi favorevole.
In generale è possibile ridurre il proprio rischio di ammalarsi seguendo uno stile di vita salutare, come per esempio mantenere il proprio peso corporeo nella norma, svolgere attività fisica, evitare il fumo e il consumo di alcolici e preferire gli alimenti vegetali a quelli grassi.
Anche allattare i figli per almeno 6 mesi aiuta a ridurre il rischio di tumore del seno, perché l'allattamento induce modifiche biologiche nelle cellule mammarie, con un esito protettivo.
Un altro aspetto essenziale per aumentare le probabilità di cura è rappresentato dall’adesione ai programmi di screening per la diagnosi precoce del tumore del seno. L’invito ad aderire a tali programmi è rivolto alle donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni e prevedono l’esecuzione di una mammografia gratuita ogni 2 anni. In alcune regioni italiane l’invito è esteso sperimentalmente a una fascia di età più ampia, compresa tra i 45 e i 74 anni.
L’ecografia può essere eseguita su indicazione del medico come ulteriore accertamento diagnostico. È un esame molto utile in particolare per esaminare il seno delle donne giovani, dato che la densità mammaria è maggiore.
È inoltre buona abitudine fare una visita del seno presso un medico esperto almeno una volta l'anno, indipendentemente dall'età.
Infine, l'autopalpazione è una tecnica che consente alla donna di individuare eventuali cambiamenti nel proprio seno. La sua efficacia in termini di screening è però molto bassa: questo significa che può integrare, ma non sostituire le visite mediche e la mammografia da effettuare a partire dall'età consigliata.
Quando l’analisi della storia medica familiare o personale mette in luce specifiche caratteristiche di rischio, per esempio l’aver ereditato una mutazione genetica che aumenti le probabilità di ammalarsi, possono essere utili strumenti di prevenzione il counselling genetico, ovvero un colloquio specialistico con un genetista esperto, e l’eventuale esecuzione di test genetici su indicazione dello specialista per la ricerca di mutazioni, per esempio nei geni BRCA 1 e BRCA2. In caso di positività a questi test, è possibile rafforzare le misure di controllo usando la risonanza magnetica per identificare il tumore mammario in fase precoce qualora dovesse presentarsi, oppure ricorrere alla mastectomia bilaterale preventiva, ovvero alla rimozione chirurgica del seno. Nei casi di mutazioni nei geni BRCA1 e 2, note per essere legate anche al rischio di tumore ovarico, la mastectomia può essere accompagnata anche dalla rimozione di tube e ovaie.
In genere le forme iniziali di tumore del seno non provocano dolore. I risultati di uno studio effettuato in quasi mille donne con dolore al seno hanno dimostrato che solo lo 0,4% di esse aveva una lesione maligna, mentre nel 12,3% dei casi erano presenti lesioni benigne (come le cisti) e nel resto dei casi non vi era alcuna lesione. Il dolore era verosimilmente provocato soltanto dalle naturali variazioni periodiche degli ormoni.
Eventuali noduli palpabili o addirittura visibili sono invece in genere i principali segni di allarme. Va sottolineato che la metà dei casi di tumore del seno si presenta nel quadrante superiore esterno della mammella.
La donna ha un ruolo attivo e di primo piano nella diagnosi precoce del tumore della mammella: è importante infatti “conoscere” il proprio seno e segnalare al medico eventuali alterazioni della forma del capezzolo (in fuori o in dentro), perdite da un capezzolo solo (se la perdita è bilaterale il più delle volte la causa è ormonale) e cambiamenti della pelle (aspetto a buccia d'arancia localizzato) o della forma del seno. Anche un ingrossamento dei linfonodi ascellari potrebbe rappresentare un campanello d’allarme.
Il cancro del seno viene diagnosticato prevalentemente attraverso esami di diagnostica per immagini, in particolare la mammografia e l'ecografia mammaria. La scelta del medico di quale dei due esami prescrivere, a volte entrambi, dipende da diversi fattori, tra i quali l’età. In alcuni casi specifici (per esempio in caso di mammelle molto dense o di lesioni difficili da classificare) è possibile ricorrere anche alla risonanza magnetica.
L'eventuale identificazione di noduli o formazioni sospette porta in genere il medico a consigliare una biopsia, che può essere eseguita in un ambulatorio di senologia diagnostica con un prelievo mediante un ago inserito nel nodulo. In alcuni casi particolari è possibile dover ricorrere al lavaggio dei dotti. Questa procedura consiste nell'introduzione di liquido nei dotti galattofori attraverso i forellini presenti sul capezzolo. Il liquido raccolto dopo il "lavaggio" contiene alcune cellule della parete dei dotti stessi che possono essere studiate al microscopio alla ricerca di eventuali differenze rispetto alla norma.
Sul campione prelevato vengono eseguite diverse analisi che permettono di esaminare le caratteristiche delle cellule (esame citologico) o del tessuto (esame istologico). Fondamentali, soprattutto ai fini di determinare la prognosi e il trattamento più idoneo, sono le indagini biologiche che vengono effettuate sul tessuto prelevato durante la biopsia, per valutare alcune caratteristiche del tumore. Tra queste vi sono l’espressione dei recettori ormonali e dell’oncoproteina HER2, una molecola che aiuta le cellule tumorali a crescere più velocemente, ma che è anche il bersaglio di diverse terapie antitumorali.
Sul campione istologico viene inoltre determinato il grado della malattia, ovvero quanto le cellule del tumore mammario differiscano dalle cellule normali: un grado più basso indica una malattia meno aggressiva.
Una volta stabilita la presenza del tumore mammario, in base alle sue caratteristiche ed estensione, il medico valuterà la necessità di effettuare ulteriori indagini radiologiche per verificarne l’eventuale diffusione in altre aree dell’organismo, come l’ecografia, la tomografia computerizzata (TC), la scintigrafia ossea o la tomografia a emissione di positroni (PET).
Assegnare uno stadio al tumore – un processo chiamato “stadiazione” – è fondamentale per scegliere le terapie da somministrare alla paziente. Come per la maggior parte dei tumori solidi, anche per il tumore mammario si utilizza il sistema di stadiazione TNM, con cui si valutano in particolare tre parametri: l’estensione della malattia (T), il coinvolgimento dei linfonodi (N) e la presenza di metastasi (M).
La scelta del percorso terapeutico dipende da diversi fattori, tra i quali le condizioni della paziente, le caratteristiche biologiche del tumore, la diffusione della malattia e molto altro ancora.
In linea generale, la maggior parte delle donne con un tumore della mammella viene sottoposta a un intervento chirurgico per rimuovere i tessuti malati.
Se possibile si ricorre alla chirurgia conservativa, ovvero a interventi chirurgici che mirano a “salvare” il seno, rimuovendo solo la parte in cui si trova la lesione. Questa tecnica è chiamata anche quadrantectomia (o ampia resezione mammaria) e consiste nell’asportazione del solo quadrante del seno interessato dal tumore e nella rimozione dei linfonodi dell’ascella. Talvolta è necessario asportare più di un quadrante di seno: in tal caso si parla di mastectomia parziale o totale (o radicale), a seconda della quantità di tessuto prelevato nell’intervento. In molti casi oggi è possibile applicare la tecnica della mastectomia che conserva il complesso di areola e capezzolo assieme alla cute circostante (in inglese “nipple sparing mastectomy”).
I risultati di numerosi studi hanno dimostrato che nelle donne che hanno la possibilità di scegliere tra i due tipi di intervento, la chirurgia conservativa (seguita da radioterapia) è efficace quanto la mastectomia in termini di sopravvivenza.
La chirurgia ha un ruolo importante anche nel determinare la diffusione della malattia attraverso l’analisi dei linfonodi ascellari. Asportando e poi analizzando i cosiddetti linfonodi sentinella, ovvero i primi linfonodi ascellari ai quali si può diffondere la malattia, i medici sono in grado di individuare l’eventuale presenza di cellule tumorali in tali linfonodi e stabilire così se sia necessario procedere alla rimozione completa o parziale di tutti i linfonodi ascellari (linfadenectomia o “svuotamento ascellare”).
Che la chirurgia sia conservativa o si tratti di una mastectomia, si può poi procedere alla ricostruzione del seno. In rari casi, se la donna deve sottoporsi a radioterapia, si tende ad aspettare la fine del trattamento, che potrebbe interferire con la cicatrizzazione (ricostruzione differita), altrimenti si può procedere alla ricostruzione del seno anche nel corso dell'intervento stesso (ricostruzione concomitante). La ricostruzione mammaria può essere effettuata utilizzando protesi definitive o provvisorie oppure tessuti muscolari e/o cutanei della paziente stessa.
La radioterapia adiuvante (effettuata dopo l’intervento chirurgico) viene utilizzata allo scopo di proteggere la restante ghiandola mammaria dal rischio di recidiva locoregionale ed è stato dimostrato che può ridurre la mortalità legata al tumore. Il trattamento dura pochi minuti e va ripetuto in genere per cinque giorni alla settimana, per tre settimane di seguito. In alcuni casi si può scegliere di somministrare le prime dosi di radioterapia già nel corso dell’intervento chirurgico.
Dopo l'intervento chirurgico la valutazione istologica e biologica è essenziale per definire le terapie mediche precauzionali e ridurre al minimo il rischio che la malattia possa ripresentarsi o colpire altri organi (metastasi a distanza). Per questo motivo a molte pazienti viene proposta una terapia con farmaci antitumorali, come la chemioterapia, le terapie anti-ormonali, l’immunoterapia o i trattamenti con farmaci che vanno a colpire specifici bersagli molecolari.
La chemioterapia è utile, ma non sempre è necessaria, e viene prescritta dopo una valutazione delle caratteristiche di ciascuna paziente. In alcuni casi selezionati di tumore mammario invasivo in fase iniziale può essere valutato da parte dei medici l’utilizzo di un test genomico se vi è positività per i recettori degli estrogeni (ER+), negatività per i recettori del fattore di crescita epidermico umano 2 (HER2-), e linfonodi negativi oppure 1-3 linfonodi positivi o ancora micrometastasi nei linfonodi. Questo test diagnostico misura l’attività di un gruppo di geni tumorali nel tessuto del tumore mammario asportato, aiuta a comprenderne la biologia e quindi a redigere un piano terapeutico più preciso e mirato, includendo la chemioterapia adiuvante in aggiunta a quella ormonale se necessario.
Alcune volte può invece essere necessario ricorrere all'uso della chemioterapia neoadiuvante, ovvero somministrata prima dell'intervento chirurgico per ridurre la dimensione del tumore e facilitarne l’asportazione con una minore invasività.
Per la maggior parte dei tipi di carcinoma mammario (ma non per tutti), gli ormoni svolgono un ruolo importante nel determinare il rischio di tumore, ma sono fondamentali anche nella scelta del trattamento adiuvante. Se un tessuto tumorale presenta infatti recettori ormonali per gli estrogeni e per il progesterone (avviene in circa due tumori su tre), è possibile fare ricorso a farmaci che – agendo proprio su tali recettori – riescono a bloccare l’azione degli ormoni e di conseguenza limitare la crescita delle cellule tumorali. Il tamoxifene, una delle terapie ormonali più note e diffuse, viene in genere prescritto sotto forma di pillole per cinque anni (e in alcuni casi fino a dieci anni) dopo l'intervento.
Sempre allo scopo di ridurre l’azione degli ormoni, in questo caso abbassandone il livello, vengono utilizzati anche gli inibitori delle aromatasi, utili soprattutto nelle donne che sono già in menopausa. Nelle donne in età fertile può invece essere anche necessario prescrivere un inibitore LH-RH analogo, ovvero un farmaco che induce una menopausa temporanea bloccando la produzione di estrogeni. Tale trattamento viene associato al tamoxifene o a un inibitore dell’aromatasi.
Le terapie a bersaglio molecolare, note anche come farmaci mirati, possono avere un ruolo centrale nella terapia del tumore della mammella, se sono presenti specifiche caratteristiche molecolari della cellula tumorale. Nel caso di tumori positivi per HER2, che rappresentano circa il 15% circa di tutti i tumori della mammella e tendono a crescere più velocemente, sono disponibili diversi farmaci mirati contro HER2. Tra questi si possono annoverare, in particolare, trastuzumab, pertuzumab, T-DM1 e trastuzumab deruxtecan, appartenenti alla classe degli anticorpi monoclonali, ovvero proteine del sistema immunitario prodotte in laboratorio. HER2 è inoltre il bersaglio di inibitori della tirosin-chinasi (TKI) come tucatinib e lapatinib.
Per quanto riguarda il tumore della mammella in stadio avanzato, e che quindi ha già prodotto metastasi, anche in questo caso esistono diversi tipi di trattamenti, come per esempio terapie ormonali, chemioterapie o terapie a bersaglio molecolare anti-HER2, che possono essere prescritti dal medico oncologo, sulla base delle caratteristiche della paziente, di quelle istologiche e molecolari del tumore.
Esistono inoltre nuovi farmaci che vengono associati alle terapie anti-ormonali, come gli inibitori della chinasi ciclina-dipendente 4/6 (palbociclib, ribociclib o abemaciclib), una proteina coinvolta nella crescita delle cellule tumorali, o il trattamento mirato contro la mutazione di PIK3CA (alpelisib o capivasertib) per il trattamento di quei tumori della mammella che presentano tale alterazione.
In presenza di mutazioni del gene ESR1, può essere utilizzato elacestrant, un degradatore selettivo del recettore degli estrogeni (SERD).
A questo gruppo già numeroso di terapie vanno aggiunti gli inibitori di PARP (olaparib o talazoparib), farmaci specifici che hanno appunto come bersaglio la proteina PARP, coinvolta nei meccanismi di riparazione del DNA che causano la morte delle cellule tumorali. Oggi tali farmaci sono in genere riservati a pazienti con tumori in stadio avanzato HER2- che presentano mutazioni nei geni BRCA. L’inibitore di PARP olaparib è anche approvato come terapia adiuvante per le pazienti con mutazione nei geni BRCA e con tumore HER2-negativo ad alto rischio di recidiva.
Le terapie mirate includono infine gli inibitori del bersaglio della rapamicina nei mammiferi (mTOR), che bloccano, appunto, una proteina chiamata mTOR. Si tratta di composti in grado di impedire alle cellule tumorali di crescere e ostacolare la formazione di nuovi vasi sanguigni necessari alla crescita dei tumori. Gli inibitori di mTOR utilizzati per trattare il tumore al seno HER2-negativo positivo ai recettori ormonali includono anche l’everolimus.
Non meno importante è l’immunoterapia usata in combinazione con la chemioterapia, utile nel trattamento di alcuni tumori mammari in stadio avanzato, in particolare i cosiddetti tripli negativi (che cioè non esprimono i tre bersagli molecolari ER, PR e HER2, contro i quali sono disponibili terapie efficaci). L’immunoterapia si basa sull’attivazione del sistema immunitario della paziente, in particolare di alcune cellule T contro le cellule tumorali, attraverso l’uso di inibitori dei checkpoint immunitari (per esempio l’anticorpo monoclonale pembrolizumab diretto contro la proteina PD-1, che può essere utilizzato nei tumori tripli negativi anche come terapia neoadiuvante, fatta eccezione per i tumori in stadio T1 N0).
Molte donne di età compresa tra i 30 e i 50 anni mostrano segni di displasia mammaria, un'alterazione benigna dei tessuti del seno che non ha nulla a che vedere col tumore, ma che può suscitare qualche preoccupazione al momento della diagnosi.
Esistono diverse forme di displasia, la più comune delle quali è la malattia fibrocistica.
Nella displasia fibrocistica a piccole cisti, più frequente tra i 30 e i 40 anni, sono presenti cisti piccole, ripiene di liquido, più evidenti durante il periodo premestruale e a volte dolorose. Nella displasia a grosse cisti, più frequente nelle donne tra i 40 e i 50 anni, si osserva invece la presenza di una o più grandi cisti, di forma rotondeggiante, a contenuto liquido.
Il tumore mammario benigno più frequente è il fibroadenoma, che compare soprattutto tra i 25 e i 30 anni. Si presenta come un singolo nodulo, duro e molto mobile, generalmente doloroso.
I sintomi che accompagnano le displasie e i fibroadenomi sono sensazioni di tensione al seno, dolore alla mammella e comparsa di noduli palpabili.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Autore originale: Agenzia Zoe
Revisione di Amalia Forte in data 25/06/2025
Agenzia Zoe