Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Esistono 200 tipi diversi di tumori rari: le persone colpite sono tante, ma i casi di ogni singola patologia sono pochi. Solo facendo rete si creano le conoscenze necessarie per rendere disponibili nuove terapie e migliorare la qualità di cura.
Su quattro pazienti malati di cancro, uno ha un tumore raro. Nel loro insieme le neoplasie rare sono perciò un problema numericamente importante. I pazienti con tumori rari sono tuttavia penalizzati dall’esiguo numero di casi di ognuno dei diversi tipi esistenti. Studiare pochi casi rende difficile capire l’evoluzione e i “punti deboli” della malattia. Gli studi clinici richiedono di testare i nuovi farmaci su migliaia di pazienti. In più, essendo pochi i destinatari dei medicinali, le industrie farmaceutiche hanno meno interesse a promuovere la sperimentazione clinica. I tumori rari sono dunque malattie “orfane”: l’esperienza clinica sul territorio è scarsa, mancano linee guida e gli investimenti per la ricerca sono insufficienti.
Raro non è comunque sinonimo di incurabile. “È vero che cumulativamente la sopravvivenza dei pazienti con tumori rari è un po’ più bassa di quella dei pazienti con tumori frequenti, ma molto dipende dal tipo di tumore: dal tumore del testicolo si guarisce quasi sempre, mentre tumori come il mesotelioma hanno una prognosi sfavorevole” spiega Paolo Casali, direttore del Reparto di oncologia medica dell’Istituto nazionale dei tumori (INT) di Milano.
Il primo passo per lo studio e la cura delle malattie è una diagnosi corretta. “Nei tumori rari la diagnosi può essere problematica. Il medico non ha mai visto la malattia e non la riconosce. Nel caso di una neoplasia rara, il medico sa che si tratta di tumore, ma l’anatomopatologo ha difficoltà a classificarlo. Ci sono alcuni tumori rari che sono particolarmente
complessi e la percentuale di diagnosi inappropriate può arrivare anche al 30 per cento. La risposta a questo problema è la collaborazione in rete: si inviano gli esami a un centro di riferimento e la diagnosi è confermata o corretta.” Solo avendo la possibilità di esaminare numerosi casi l’anatomopatologo riesce a farsi un’esperienza sufficiente per distinguere malattie molto simili tra loro, che possono essere tali al microscopio ma magari vanno trattate in modo completamente diverso.
Per dare accesso a questo genere di competenze, nel 2017 sono state create le Reti di riferimento europee (European Reference Network, ERN). Le reti di riferimento
per i tumori rari sono tre: una per i tumori ematologici dell’adulto, una per i tumori solidi dell’adulto e una per i tumori pediatrici.
A supporto delle reti di istituzioni oncologiche, l’Unione Europea ha finanziato la Joint Action sui Tumori Rari (JARC), un’iniziativa coordinata dall’INT di Milano. Vi
partecipano 34 partner provenienti da 18 Paesi europei, assieme ad associazioni di pazienti e società scientifiche. “La Joint Action si concluderà alla fine del 2019. Pubblicheremo un volume in cui saranno raccolte le raccomandazioni su cosa andrebbe fatto per i tumori rari, con particolare attenzione a quello che andrebbe fatto dalle ERN” spiega Casali. “Le reti europee sono reti di centri di eccellenza, che in realtà lavoravano già insieme per fare ricerca. È importante che si crei collaborazione per la qualità di cura dei pazienti.” Nei tumori rari la qualità di cura è più critica che in quelli frequenti: sono tanti, nessuna istituzione vede tutti i tipi di tumori rari e una qualità di cura inadeguata può influire negativamente sulla sopravvivenza.
In Italia, sempre nel 2017, è stata raggiunta un’intesa Stato-Regioni per la creazione della Rete nazionale tumori rari. Alcuni centri di eccellenza (centri hub) fanno da supporto a centri periferici (centri spoke). Hub e spoke sono i termini inglesi che indicano il mozzo e i raggi della ruota: la specializzazione di alto livello viene concentrata per distribuire competenze e professionalità sul territorio. “All’interno della Rete nazionale ci sono tre reti professionali che forniscono servizi di consultazione a distanza (telepatologia).
La rete per i tumori solidi dell’adulto è coordinata dall’INT di Milano, la rete per i tumori ematologici dell’adulto dal Policlinico Umberto I di Roma e la rete per i tumori pediatrici dall’Ospedale Regina Margherita di Torino. La creazione della Rete Nazionale permette di limitare la migrazione sanitaria: a migrare è la conoscenza, non il paziente. Inoltre, dalla formazione di queste reti beneficia anche la ricerca: si possono fare studi più grandi con una qualità di cura elevata”.
“Dal punto di vista della ricerca di base non ci sono modalità di studio specifiche per i tumori rari: i tumori rari sono tumori come gli altri” dice Casali. “Il che può essere un vantaggio
perché, rispetto ad altre malattie rare, la ricerca può sfruttare gli strumenti dell’oncologia. Per esempio, i tumori rari vengono censiti dai Registri tumori, mentre per le malattie rare non tumorali è necessario creare registri appositi”.
Uno strumento importante per lo studio delle malattie sono le biobanche: organizzazioni senza fini di lucro che raccolgono, catalogano e conservano campioni biologici, rendendoli disponibili per scopi di ricerca. Creare biobanche per i tumori rari o molto rari è estremamente difficile. “Uno degli scopi delle reti è proprio facilitare la creazione di biobanche. Si possono centralizzare i campioni biologici, ma anche ‘virtualizzarli’ ossia mettere a disposizione l’informazione che presso una certa istituzione ci sono materiali utili, in modo tale che se necessario possano essere recuperati”.
Dall’analisi del DNA dei tumori si ricavano informazioni sulle alterazioni molecolari che li caratterizzano e che possono diventare bersaglio di un farmaco. Creare delle banche dati che raccolgono tutte le analisi genomiche fatte sui tumori rari è un altro strumento prezioso per la ricerca. Inoltre, oggi si fa ricorso sempre più spesso alle cartelle elettroniche, che rendono più facile andare a rivedere la documentazione clinica di sottogruppi di pazienti. “La tecnologia e la condivisione dei big data possono generare nuove ipotesi da testare e favorire la ricerca clinica” spiega Casali. “La collaborazione in rete è essenziale per trasferire i risultati delle ricerche alle applicazioni cliniche”.
Gli studi più solidi sull’efficacia di un farmaco sono gli studi randomizzati controllati: un gruppo di pazienti riceve il farmaco sperimentale e un altro gruppo un farmaco già noto o eventualmente in studi specifici un placebo (sostanza senza nessun effetto). Questi studi richiedono grossi investimenti e coinvolgono moltissimi pazienti. E se i pazienti non si trovano, come nei tumori rari? I ricercatori stanno cercando soluzioni per ovviare a questo problema. Si possono utilizzare disegni sperimentali modificati rispetto a quelli usuali e applicare analisi statistiche diverse. Dalla condivisione dei dati può arrivare un grosso contributo.
“Si possono fare studi clinici non controllati, ossia studi che non hanno un controllo interno, ma in cui si utilizzano controlli esterni identificati grazie a registri clinici e clinico- biologici”. Si confronta l’evoluzione della malattia in pazienti che ricevono un certo farmaco con quelli che avevano caratteristiche simili, ma non avevano utilizzato il farmaco. Gli stessi controlli possono essere usati per studi diversi e quindi si possono testare vari farmaci senza avere bisogno tutte le volte di un gruppo di controllo. Tale approccio potrebbe essere adeguato a ottenere la registrazione dei farmaci da parte dell’autorità di regolamentazione. Probabilmente aiuterebbe un po’ meno di rigidità nelle regole. “Bisognerebbe accettare il principio che negli studi cinici e nelle richieste di registrazione di farmaci per i tumori rari va tollerato un grado di incertezza più elevato rispetto a quello a cui siamo abituati nelle malattie più comuni” conclude Casali. “Altrimenti il paziente con tumore raro viene discriminato poiché nel suo caso non arriveremo mai a fare sperimentazioni con i margini di certezza richiesti e quindi non avrà mai una cura disponibile”.
Elena Riboldi (Agenzia ZOE)