Ultimo aggiornamento: 18 maggio 2025
Il documento della Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (FAVO) ricorda l’importanza del supporto psiconcologico in occasione della Giornata nazionale del malato oncologico.
Le persone in vita dopo aver ricevuto una diagnosi oncologica sono sempre di più: 3,7 milioni alla fine del 2024, tra lungosopravviventi, cioè pazienti che vivono dopo la malattia, e veri e propri guariti, ovvero persone che dopo aver superato un tumore hanno la stessa aspettativa di vita dei coetanei che non si sono mai ammalati di cancro. Anche la prospettiva di guarigione è in crescita: oggi, circa 1 persona che riceve una diagnosi di tumore su 2 probabilmente guarirà. Occorre però anche ricordare che queste persone hanno particolari bisogni di cui il servizio sanitario è chiamato a farsi carico. È quanto evidenzia il rapporto 2025 sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, redatto della Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (FAVO) e presentato alla presenza del ministro della salute Orazio Schillaci in occasione della Giornata nazionale del malato oncologico, che si tiene ogni anno nella terza domenica di maggio.
L’incontro con il cancro lascia un segno in chi lo ha affrontato, che si ripresenta sovente con la paura di una recidiva. “Se nella fase acuta solo il 20% degli ospedali offre risposte di cura specialistica, gli interventi psiconcologici risultano quasi del tutto assenti quando i pazienti tornano a casa e dopo la fine dei trattamenti” afferma Elisabetta Iannelli, segretario generale della FAVO. Continua: “È urgente investire risorse nell’assistenza psiconcologica per i malati in trattamento antitumorale, con particolare attenzione a coloro che sono in remissione o vivono con una malattia cronicizzata. Un intervento di questo tipo è cruciale per gestire la paura della progressione o della recidiva, che rischia di generare un cortocircuito: con pazienti che talvolta per paura si sottraggono agli esami di follow-up e tendono più spesso a rimandare gli esami diagnostici prescritti dal medico”.
“Un disagio psicologico, clinicamente significativo e invalidante va rilevato, riconosciuto e trattato seguendo le più recenti evidenze scientifiche, con un monitoraggio costante degli aspetti psicosociali legati alla malattia” sottolinea Angela Piattelli, presidente della Società italiana di psiconcologia (SIPO). Alcuni studi evidenziano infatti che gran parte dei pazienti sperimenta la paura della recidiva. Per esempio, secondo i risultati di una metanalisi pubblicata sulla rivista Psychoncology, il 59% circa dei sopravvissuti e dei pazienti con una malattia cronicizzata presenta una paura almeno moderata della possibilità di un ritorno di malattia. Il 19% circa ha una paura elevata dell’eventualità.
Per fornire una risposta adeguata occorre lavorare su diversi piani. In primis, sensibilizzando gli oncologi e i caregiver per un pronto riconoscimento di questo malessere: un aspetto fondamentale per dare il la alla gestione più opportuna. Ma non solo. Serve lavorare sia sul fronte della ricerca (“Il tema è ancora poco o per nulla considerato nelle linee guida internazionali per la gestione dei sopravvissuti oncologici”), sia sviluppando politiche che prevedano “l’attivazione sistematica di interventi specifici per coloro che, nonostante abbiano superato il cancro, continuano a convivere con una sofferenza che mina le risorse emotive e mentali necessarie a un pieno reinvestimento nella vita”.
La paura della recidiva si manifesta con “ansia, depressione, stress post-traumatico e disturbi del sonno: sintomi che possono arrivare anche a perdere il legame con il trauma scaturito dalla diagnosi oncologica” spiega Piattelli, che lavora nell’unità operativa complessa di oncologia medica dell’azienda ospedaliera di Cosenza. “Questa paura, quando raggiunge livelli significativi, influenza le attività quotidiane, le relazioni interpersonali e le decisioni di vita.” I controlli e le visite mediche possono essere fonte di ansia, mentre alcuni pazienti riescono ad attenuare la preoccupazione soltanto “ricorrendo in maniera continua e spesso impropria ad accertamenti o visite mediche”. Una questione che, considerando che lo stesso problema si rileva quasi nella metà dei caregiver, ha un impatto individuale e allo stesso tempo comunitario.
Da qui la necessità di migliorare lo screening del disagio emotivo, in diversi momenti del percorso (“in particolare alla fine del trattamento e durante il follow-up, quando i sopravvissuti al cancro hanno meno contatti con il sistema sanitario”), considerando “l’assenza di predittori chiari e coerenti” della risposta psicologica alla malattia. Come chiarisce ancora Piattelli, “la comunicazione tra oncologo e paziente gioca un ruolo fondamentale. Ci sono studi che hanno dimostrato come la migliore qualità dell’assistenza sanitaria ricevuta nel periodo post-trattamento, la maggiore presenza dello specialista a livello informativo e nella gestione dei sintomi e degli effetti collaterali delle terapie influenzino la gestione della paura di una recidiva”. Nel documento sono descritti i diversi interventi per cui vi è una documentata efficacia:
Quando tutto ciò non basta, va considerata la possibilità del supporto psicofarmacologico. “Questa necessità si manifesta nei casi più gravi o quando la persona che abbiamo di fronte soffre anche di una sindrome psichiatrica, che inficia o rende impossibili i trattamenti psicoterapici” precisa Alessio Simonetti, dirigente medico del servizio di psichiatria oncologica dell’IRCCS Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma. “Il disturbo depressivo maggiore e il disturbo dell’adattamento sono quelli che impattano maggiormente sulla vita di un paziente e possono anche aggravare la percezione del dolore postoperatorio e gli effetti collaterali della chemioterapia. Antidepressivi, ansiolitici e stabilizzatori dell’umore sono strumenti utili per migliorare la qualità della vita e l’aderenza terapeutica, a patto però che ci sia un corretto riconoscimento di queste patologie e un trattamento tempestivo”. Conclude Iannelli: “Un approccio integrato che combini supporto psicologico e psicofarmacologico, quando necessario, è fondamentale per migliorare la qualità della vita e l’aderenza terapeutica e aiuta a gestire l’impatto emotivo della malattia, contribuendo a evitare l’isolamento”.
Fabio Di Todaro