Sono un ricercatore e trascorro più di metà della mia giornata in laboratorio. Ma sono anche un medico e per il resto del tempo sono impegnato in ospedale tra il reparto, gli ambulatori, le guardie di notte e i fine settimana.
Mi occupo dei pazienti con leucemia al San Raffaele di Milano e, anche se conciliare le due attività cliniche e di laboratorio a volte è difficile, sono felice di svolgerle entrambe.
Avere costantemente a che fare con i pazienti aiuta a migliorare la ricerca: fa nascere tante domande e fa capire quali sono i bisogni reali dei malati. In più, dà valore a quel che facciamo: sapere che i campioni di cellule o di sangue con cui si lavora non sono semplicemente materiale biologico, ma derivano da pazienti che hanno una vita, una storia e dei familiari, responsabilizza noi ricercatori e ci dà una grande motivazione.
Grazie ad AIRC, da quattro anni dirigo un gruppo di ricerca (vedi foto) formato da una decina di giovani ricercatori con competenze diverse: medici, biotecnologi e bioinformatici. Studiamo le leucemie acute e, in particolare, stiamo cercando di capire per quale ragione, in molti pazienti, dopo il trapianto di midollo osseo la malattia si ripresenti.
In questi anni abbiamo capito che le recidive sono dovute alla capacità delle cellule leucemiche di trasformarsi e “nascondersi” così dall'attacco del sistema immunitario. Prima si credeva che la causa fosse l’insuccesso del trapianto.
Qualche anno fa abbiamo scoperto che una di queste trasformazioni è responsabile di un terzo dei casi di recidiva. La causa è la perdita di una molecola (Hla) usata dal sistema immunitario per riconoscere le cellule leucemiche. Senza questo bersaglio le cellule del sistema immunitario non possono aggredire la leucemia, che quindi riprende a proliferare.
Queste nuove conoscenze ci stanno già fornendo strumenti per realizzare trattamenti più efficaci: per esempio oggi sappiamo che, in alcuni casi, se dopo il primo trapianto compare una recidiva, una strategia vincente può essere cambiare il donatore di midollo. In questo modo si fornisce al paziente un “nuovo” sistema immunitario capace di riconoscere le cellule leucemiche che, nel frattempo, si erano nascoste dopo il trapianto.
Resta però ancora tanto da fare per fornire a tutti i pazienti un trattamento veramente risolutivo.
Luca Aldo Edoardo Vago
Università:
Istituto San Raffaele, Milano
Articolo pubblicato il:
12 aprile 2018