Ultimo aggiornamento: 24 ottobre 2018
Grazie a una tecnica messa a punto in Italia e presentata nel mese di dicembre scorso a un importante convegno negli Stati Uniti, i genitori possono donare il proprio midollo osseo per il figlio che ha bisogno di un trapianto. Aumentano così le possibilità di guarigione.
Per i bambini e i ragazzi malati di leucemia, per i quali la chemioterapia non ha conseguito l'effetto sperato, negli ultimi due-tre anni si è rafforzata, anche grazie ai finanziamenti AIRC, una nuova speranza: il trapianto di midollo da genitori, reso possibile dagli studi condotti all'Ospedale Bambino Gesù di Roma dall'équipe di oncoematologia pediatrica diretta da Franco Locatelli. Risultati che sono stati giudicati così importanti dalla comunità scientifica internazionale, che l'American Society of Haematology ha invitato l'oncologo a esporli a colleghi e giornalisti all'ultimo congresso, svoltosi alla fine del 2013 a New Orleans.
Come si è arrivati a un traguardo a lungo ritenuto irraggiungibile? Risponde Locatelli: "Fino a quarant'anni fa si eseguiva soltanto il trapianto da fratello, e solo per un paziente su quattro c'era un midollo compatibile; questa probabilità è diventata ancora più bassa con il calo delle nascite. Per ovviare a questo grande limite si sono allora creati i registri internazionali dei donatori volontari di midollo (20 milioni circa i donatori di cui sono disponibili oggi i dati). Questo approccio permette di trovare un donatore per il 60% circa dei malati, ma purtroppo, in ogni caso, il tempo che passa tra l'apertura della ricerca di un donatore e il trapianto è di qualche mese, un tempo molto lungo per questi pazienti. Contemporaneamente si iniziò a raccogliere e utilizzare il sangue del cordone ombelicale (600.000 circa le unità disponibili), ma anche in quel caso con grossi limiti, legati al fatto che le cellule staminali utilizzabili nel cordone sono poche, molto spesso insufficienti, soprattutto nei pazienti di un certo peso corporeo". Nessuna delle due soluzioni, in altre parole, sembrava risolvere il problema, come attesta il fatto che la percentuale di bambini che non trovava un midollo era ancora alta, attorno al 30-40%.
Per questo si iniziò a studiare la possibilità di trapiantare il midollo di un parente geneticamente identico al 50%, ossia di un genitore biologico. I primi tentativi, intorno all'anno 2000, tuttavia, partivano da un'idea che non si è rivelata vincente, come racconta Locatelli: "Si trapiantavano solo le cellule staminali caratterizzate da una proteina chiamata CD34, e questo causava un ritardo notevole nei tempi di recupero del sistema immunologico. L'effetto dei linfociti T natural killer, o NK, importantissimo in questi casi, si iniziava a vedere solo dopo otto-dieci settimane, cioè solo dopo che le staminali avevano avuto il tempo di trasformarsi in tutte le possibili cellule derivate".
Da qui l'idea di togliere dal midollo del genitore solo ciò che avrebbe potuto causare danni, inducendo la più temuta tra le conseguenze di un trapianto, la graft versus host disease, una sorta di aggressione da parte delle cellule trapiantate all'organismo del ricevente. Spiega l'oncologo: "I principali responsabili di questa reazione sono i linfociti T che recano sulla loro superficie le catene del recettore antigenico alfa e beta: abbiamo pensato di togliere solo quelli, lasciando tutto il resto e cioè i linfociti NK, quelli T con le catene gamma e delta, le cellule progenitrici delle piastrine e di altri elementi del sangue fondamentali per la sopravvivenza, e i risultati sono stati molto positivi". Dopo 18 mesi l'80% dei pazienti non mostra segni di malattia, una percentuale del tutto simile, se non superiore, a quella che si ottiene quando si trapianta il midollo di un fratello o di un donatore compatibile. "Ciò accade perché le cellule NK presenti aiutano a combattere le eventuali cellule tumorali e i linfociti T gamma e delta proteggono il bambino dalle infezioni" spiega ancora Locatelli. "Con questo trapianto, il recupero delle cellule del sangue è velocissimo (si riformano cioè molto presto tanto le piastrine quanto i globuli bianchi), e lo stesso accade per gli elementi del sistema immunitario".
All'Ospedale Bambino Gesù questa è ormai la prassi, e il trapianto da genitore è stato esteso anche a quei bambini che ne hanno bisogno perché affetti da patologie diverse dal tumore, come alcune malattie genetiche: a oggi, sono già 22 i piccoli pazienti non oncologici trattati e 20 di essi sono guariti. In Italia l'ospedale romano è per il momento l'unico centro pediatrico dove viene eseguito questo tipo di trapianto, ma quello per adulti di Parma, diretto da Franco Aversa, ha iniziato un programma simile, e probabilmente presto vi saranno altri centri ad alta specializzazione in grado di proporlo.
L'Italia ospita spesso pazienti provenienti da altri Paesi d'Europa, sia all'interno sia all'esterno della comunità europea, ma anche da più lontano (America Latina, Africa e Asia), che vengono fin qui per l'elevata qualità dei centri di trapianto di staminali ematopoietiche (cellule del midollo osseo).
Il trapianto di midollo è infatti una procedura molto complessa e il Bambino Gesù è l'ospedale pediatrico italiano dove se ne effettuano di più. Nel 2012 ne sono stati eseguiti 138, su un totale di 591 trapianti pediatrici registrati in Italia, cioè il 23%. Di questi, 109 sono di tipo allogenico e provengono da donatori reperiti all'interno della famiglia o nei registri internazionali dei donatori di cellule staminali. Si tratta del 28% di tutti i trapianti allogenici effettuati in Italia nel corso dello stesso anno (390). La restante quota ha invece utilizzato cellule autologhe, cioè estratte dal paziente stesso e trattate prima della reinfusione.
Dal 2003 al 2008 l'82% dei bambini e l'86% degli adolescenti è in vita cinque anni dopo la diagnosi di tumore. Maggiori informazioni sulla ricerca sui tumori pediatrici a questa pagina.
Agnese Codignola