Tumore della prostata: la difficile scelta tra i benefici della diagnosi precoce e i possibili svantaggi

Il dosaggio del PSA è un esame del sangue facile da effettuare. Un eventuale esito positivo non è tuttavia sufficiente a una diagnosi del tumore della prostata. Anche per questo a oggi non esiste ancora un programma di screening per la diagnosi precoce di

Ultimo aggiornamento: 31 luglio 2025

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Il PSA è un marcatore specifico della ghiandola prostatica, ma non del tumore che colpisce questo organo. Per questo motivo il dosaggio del PSA non è a oggi utilizzato come test di screening per la diagnosi precoce del cancro prostatico.

Gli esperti concordano che il dosaggio del PSA può aiutare a monitorare nel tempo i pazienti che sono già stati operati o trattati con radioterapia o terapia ormonale, in modo da cogliere per tempo l’eventuale ripresa della malattia. L’esame non è invece considerato, da solo, utile a individuare l’eventuale presenza di un cancro in fase precoce in tutti gli uomini sani di una certa età, poiché sono troppo numerosi gli esiti falsi positivi.

In altre parole, il rapporto per questo esame tra i possibili benefici e gli effetti indesiderati non è sufficientemente positivo. Per queste ragioni al momento non esiste nel mondo un programma di screening di popolazione basato solo sul dosaggio del PSA. Per altri tipi di tumore, invece, il rapporto tra benefici ed effetti indesiderati è migliore, per esempio nel caso della mammografia per la diagnosi precoce del tumore al seno o dell’esame del sangue occulto delle feci per il tumore al colon-retto.

Sul test del PSA ci sono alcune posizioni contrastanti tra le società scientifiche internazionali, con il rischio di confondere i pazienti e gli stessi medici.

Tuttavia, in adulti sani e senza disturbi attribuibili a un tumore della prostata, c'è un’alta probabilità di ottenere risultati falsi positivi, ossia valori alterati di PSA anche in assenza della malattia tumorale. L’aumento del PSA può, infatti, indicare anche la presenza di condizioni benigne come ipertrofia prostatica, infiammazioni, infezioni. Questo tipo di esame può inoltre portare a diagnosticare tumori a crescita talmente lenta che non avrebbero mai dato segni di sé nel corso della vita dei pazienti e, di conseguenza, non necessiterebbero di ulteriori esami di approfondimento (per esempio la biopsia prostatica) e trattamenti. Per questo motivo, l’esame del PSA contribuisce notevolmente al problema della sovradiagnosi.

La parola all'esperto

L'oncologo Francesco Perrone parla del PSA.

La diagnosi precoce non incide sempre sulla sopravvivenza

Gli studi condotti finora dimostrano che dosare il PSA aumenta la possibilità di individuare una neoplasia della prostata in fase iniziale. Non tutti però concordano sul fatto che, anticipando la diagnosi, si possa ridurre il numero di persone che moriranno a causa della malattia. In questo caso, quindi, la diagnosi precoce non sempre produce un vantaggio per i pazienti in termini di riduzione della mortalità. Una recente analisi condotta in 26 Paesi europei ha confermato che, a fronte di un significativo aumento dei casi registrati dovuto a una maggiore diffusione del test, la mortalità non è diminuita in modo proporzionale, ma ha subito soltanto una lieve decrescita. Questi risultati confermerebbero che l’introduzione di un esame di screening per il tumore della prostata basato soltanto sul PSA avrebbe un impatto limitato in termini di sopravvivenza. Il leggero calo della mortalità che si è registrato è probabilmente dovuto al miglioramento delle terapie, piuttosto che al maggior numero di casi diagnosticati in fase precoce.

Fino ai primi anni del secolo attuale, probabilmente anche a causa della diffusione di questo test, si è osservato un aumento nel numero di nuovi casi di tumore alla prostata scoperti ogni anno. La tendenza è emersa innanzitutto negli Stati Uniti, dove il test del PSA è stato utilizzato inizialmente, ed è poi seguita anche in Europa e in Italia. Nel nostro Paese l’incremento è stato maggiore nel nord Italia, dove si è diffuso maggiormente il cosiddetto self-screening, ossia l’esecuzione del PSA su richiesta del paziente. Recentemente l'uso del test è diminuito, e parallelamente anche l'incidenza del tumore della prostata. Questo suggerisce una stretta correlazione tra il numero di test del PSA effettuati e il numero di diagnosi registrate, come si può osservare anche in altri Paesi europei.

A questo proposito può essere utile comprendere la differenza tra uno screening opportunistico offerto indiscriminatamente a tutta la popolazione maschile, che non porta a reali benefici, e uno screening organizzato, prescritto sulla base del rischio individuale di sviluppare il tumore.

Parte della comunità scientifica concorda sul fatto che introdurre lo screening del PSA per certe fasce d’età potrebbe ridurre fino al 20% la mortalità per tumore della prostata. Tuttavia, per ogni individuo salvato non è trascurabile il numero di persone che ricevono invece una diagnosi di tumore e una terapia ininfluente sulla durata della vita, che però incide negativamente sulla qualità della vita stessa. Nel più importante studio sull’argomento – lo European Randomized Study of Screening for Prostate Cancer (ERSPC) – i ricercatori hanno per esempio stimato che, per ogni vita salvata grazie alla diagnosi precoce di tumore alla prostata tramite PSA, altri 18 uomini scoprono di avere un cancro che non avrebbe dato loro problemi. Poiché non è sempre possibile distinguere tra tumori indolenti o aggressivi, queste persone vengono comunque curate, subendo gli effetti indesiderati delle terapie, per una malattia che non avrebbe avuto modo o tempo di manifestarsi durante la loro vita, se non si fossero sottoposti all’esame. Questo fenomeno, noto come sovradiagnosi, è stato discusso anche in uno studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista BMJ nel 2024, mettendo in evidenza un rapporto crescente tra incidenza e mortalità per tumore della prostata in tutta Europa.

Per quanto riguarda l’organizzazione di uno screening di popolazione, la comunità medico-scientifica si trova in una situazione di incertezza, dato che su una scala così grande di popolazione i benefici non supererebbero gli effetti collaterali negativi. Per questo motivo quasi tutti i Paesi europei, a eccezione della Lituania, al momento non hanno introdotto programmi di screening di popolazione basati sul PSA. La preferenza è per un approccio in cui è il medico a decidere se prescrivere l’esame, dopo aver valutato il rischio individuale del paziente di sviluppare la malattia. La Commissione europea ha però recentemente raccomandato di valutare l’introduzione graduale di programmi di screening ben pianificati, che si basino non solo sul test del PSA, ma anche sulla risonanza magnetica multiparametrica, in modo da minimizzare il rischio di sovradiagnosi e sovratrattamento.

Effetti collaterali del dosaggio del PSA

Se il valore del PSA risulta elevato è fondamentale seguire precise indicazioni proprio per ridurre al minimo il numero di biopsie evitabili. Un PSA elevato è infatti quasi sempre seguito da accertamenti diagnostici invasivi e trattamenti che possono essere aggravati, in una percentuale variabile di casi, da complicazioni rilevanti. La biopsia ecoguidata (trans-rettale o trans-perineale), infatti, è spesso accompagnata (specie la trans-rettale) da complicanze quali emorragie e infezioni.

Il rischio di complicanze gravi o di decessi durante un intervento per l’asportazione della prostata o nel decorso post-operatorio è invece minimo. In seguito, però, si possono verificare incontinenza urinaria e soprattutto impotenza transitorie o permanenti in percentuali variabili, dipendenti dall’estensione della malattia e dall’esperienza del chirurgo.

Finora non ci sono prove certe che le più moderne tecniche robotiche siano in grado di ridurre il rischio di questi effetti indesiderati rispetto a quelle tradizionali. Disturbi di questo tipo possono seguire, in percentuali diverse, anche la radioterapia, che provoca più spesso complicazioni rettali e anali, come dolore, urgenza alla defecazione e perdite. Anche la terapia ormonale, che consiste nella soppressione degli androgeni ed è utilizzata soprattutto nei pazienti più anziani o con malattia più avanzata, può provocare effetti collaterali.

Fin dall’inizio si è quindi cercato di capire come limitare queste conseguenze, che colpiscono anche pazienti che non avrebbero mai manifestato la malattia. L’obiettivo è infatti evitare, da un lato, il rischio di sovradiagnosi e quindi di trattamenti in eccesso che potrebbero creare più problemi che vantaggi per i pazienti. Dall’altro lato occorre anche scoprire il tumore prima che sia già in fase avanzata, compromettendo così la possibilità di guarigione. Fra i diversi approcci utilizzati per migliorare l’accuratezza diagnostica del PSA c’è la cosiddetta PSA density, ossia il rapporto tra PSA circolante e dimensioni della ghiandola prostatica misurata tramite ecografia. La ragione per cui si calcola questo rapporto è che la quantità di PSA rilasciato in circolo per grammo di tessuto ghiandolare è molto superiore nel cancro rispetto a quanto avviene nella forma benigna di ipertrofia prostatica. In diversi studi è stato infatti dimostrato che la PSA density ha un’accuratezza diagnostica maggiore rispetto al PSA totale.

Nei casi di tumore in fasi più precoci si sta inoltre diffondendo un approccio di sorveglianza attiva. I pazienti si sottopongono a controlli ravvicinati per cogliere precocemente un’eventuale accelerazione nella crescita del tumore e in tal caso intervenire. Recenti analisi hanno evidenziato come in questi casi la PSA density possa rappresentare un importante fattore predittivo sulla progressione del tumore.

Suggerimenti per chi decide di eseguire il test

Alla luce dei possibili benefici ed effetti collaterali, ognuno deve soppesare bene con l’aiuto del proprio medico se aggiungere il PSA agli esami di routine. Nella valutazione occorre tener conto anche dell’età. L'esame, infatti, non è mai raccomandato in assenza di sintomi, ma può essere preso in considerazione da chi, debitamente informato, volesse comunque eseguirlo, tra i 50 e i 75 anni. Secondo le Linee guida AIOM del 2024, può essere proposto a uomini con un’aspettativa di vita media di almeno 10 anni, previa discussione informata con il proprio medico e in assenza di comorbidità significative. Anche secondo gli studi più favorevoli, infatti, l’esame a scopo di diagnosi precoce offre qualche vantaggio in termini di sopravvivenza solo agli uomini in questa fascia di età: tra i più giovani la malattia è troppo rara e oltre la soglia dei 70, ma forse anche prima, la scoperta di avere un tumore alla prostata non cambierebbe l’aspettativa di vita. E il prezzo sarebbe un peggioramento della qualità di vita, dovuto alla consapevolezza di avere un cancro e agli effetti di eventuali interventi e terapie.

Per questo la misurazione del PSA per la diagnosi precoce di tumore della prostata pone ancora un numero di problemi aperti, tali per cui la maggior parte delle linee guida non è favorevole all’introduzione di questo esame per uno screening di popolazione. Misurare il PSA in una persona sana e senza sintomi è esplicitamente sconsigliato in alcune linee guida. La maggior parte delle società scientifiche propone piuttosto di offrire il test agli uomini interessati, soltanto dopo che siano stati informati accuratamente sui benefici e sui rischi. In ogni caso, prima dei 50 anni e dopo i 70-75 dovrebbe essere comunque sconsigliato. Per i soggetti ad alto rischio, soprattutto se si sono verificati casi di tumore della prostata in parenti di primo grado o se si possiede una mutazione a carico del gene BRCA 2 o del gene ATM, la sorveglianza attiva può iniziare anche tra i 40 e i 45 anni, anche se al momento non esistono prove definitive sull'efficacia di uno screening neanche in questi casi. La necessità di sottoporsi al test va dunque valutata caso per caso.

Le Linee guida europee e di AIOM consigliano, in presenza di un valore di PSA compreso fra 3 e 10 ng/mL, di eseguire una risonanza magnetica multiparametrica (mpMRI), prima di sottoporsi a un’eventuale biopsia prostatica. Questo particolare tipo di risonanza magnetica permette di osservare la morfologia della ghiandola prostatica mettendo in luce diversi parametri. Alcuni studi hanno dimostrato che la risonanza magnetica multiparametrica è in grado di discriminare fra un tumore aggressivo e uno con minori possibilità di diventarlo. I tumori sono classificati come non aggressivi quando soddisfano alcune caratteristiche istologiche (es. un valore di Gleason minore o uguale a 6) e sono quelli per cui è più probabile che avvenga una sovradiagnosi. In diverse analisi, questa tecnica si è rivelata sensibile e specifica per identificare l’adenocarcinoma prostatico e valutare lesioni sospette in pazienti con valori alti di PSA o esami clinici positivi. Per rendere più affidabile e standardizzato tale esame, si utilizzano protocolli dedicati e si utilizza un sistema di classificazione del rischio di malattia da 1 (poco probabile) a 5 (altamente probabile). Tale classificazione viene chiamata PI RADS, e indirizza l’urologo verso l’opportunità o meno di eseguire prelievi mirati (generalmente per valori PI RADS ≥3).

La biopsia prostatica resta sempre l’esame fondamentale per arrivare alla diagnosi definitiva di tumore, ma la risonanza magnetica può determinare un notevole aumento nella precisione della diagnosi, identificando le aree bersaglio dove concentrare i prelievi e l’estensione locale dell’eventuale tumore. Queste informazioni, unite ad altri parametri clinici e di laboratorio, nelle mani di un clinico esperto sono molto preziose per indirizzare i pazienti verso il trattamento più indicato. Una volta ritirati i risultati degli esami è importante non allarmarsi se si trova un asterisco che segnala un valore alterato di PSA. Il dosaggio del PSA può dare esiti anomali per moltissime ragioni, per esempio patologie benigne della prostata, insufficienza renale, un’esplorazione rettale, una recente attività sessuale o l’uso di farmaci molto comuni e perfino un’attività fisica intensa come il ciclismo. I valori fluttuano inoltre in base al peso corporeo, all’etnia e perfino in relazione alle stagioni dell’anno. Un singolo riscontro di valori superiori alla media non deve quindi destare particolare preoccupazione, anche perché non esiste una soglia di sicura positività: in parte dipende dall’età dato che il PSA tende a crescere con l’avanzare dell’età. Normalmente si considera degna di attenzione una concentrazione di PSA superiore a 3 ng/mL, ma valori inferiori non permettono di escludere completamente la malattia. La biopsia conferma la presenza di un tumore in meno di 1 uomo su 4 con valori di PSA compresi tra 3 e 10 ng/mL. Se i livelli sono molto elevati il sospetto di un tumore si fa invece più fondato. Più che il valore assoluto, però, sembra che abbia una rilevanza maggiore l’andamento nel tempo del PSA, mentre la percentuale di PSA libero, cui un tempo si dava particolare importanza, secondo le linee guida AIOM non è da considerare a fini diagnostici. Sarà il medico a stabilire, in relazione al risultato dell'esame, all’età e alle condizioni del paziente, se ripetere l’esame a distanza di tempo o se eseguire subito una biopsia ed eventualmente, prima, una risonanza magnetica multiparametrica.

Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.

Autore originale: redazione

Revisione di Raffaella Gatta in data 31/07/2025

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