Ultimo aggiornamento: 15 febbraio 2023
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Il dosaggio del PSA, cioè del cosiddetto “antigene prostatico specifico”, è un esame del sangue facile da effettuare, sulla cui utilità per la diagnosi precoce del tumore della prostata esistono però da tempo dei dubbi.
Gli esperti concordano che dosare il PSA serve a controllare nel tempo i casi già trattati (operati, trattati con radioterapia o in terapia ormonale) per monitorare l’eventuale ripresa della malattia. È invece dubbio se sia utile a individuare l’eventuale presenza di un cancro in fase precoce in tutti gli uomini sani di una certa età, poiché l’esame dà numerosi esiti che sono falsi positivi. Di questi aspetti occorre che le persone siano adeguatamente informate.
Poiché il rapporto tra possibili benefici ed effetti indesiderati non è completamente positivo. Non esiste finora un programma di screening di popolazione raccomandato, come invece per la mammografia per la diagnosi precoce del tumore della mammella. I dubbi si riflettono anche nelle posizioni contrastanti che le società scientifiche internazionali e italiane a volte hanno sul tema, con il rischio di confondere le persone.
In adulti sani e senza disturbi attribuibili a un tumore della prostata, c'è infatti un’alta probabilità di ottenere risultati falsi positivi, ossia valori alterati di PSA anche in assenza della malattia tumorale. L’aumento del PSA può, infatti, indicare infiammazioni, infezioni, forme tumorali benigne. Ma il problema maggiore sta forse nel fatto che questo tipo di esame può anche portare a diagnosticare tumori a crescita talmente lenta che non avrebbero mai dato segni nel corso della vita dei pazienti. Per questo motivo, l’esame del PSA contribuisce a un notevole numero di sovradiagnosi.
L'oncologo Francesco Perrone parla del PSA.
Gli studi condotti finora dimostrano che dosare il PSA aumenta la possibilità di individuare una neoplasia della prostata in fase iniziale. Non tutti però concordano sul fatto che, anticipando la diagnosi, si possa ridurre il numero di persone che moriranno a causa della malattia. In questo caso, quindi, la diagnosi precoce non sempre produce un vantaggio per i pazienti in termini di riduzione della mortalità. Il leggero calo della mortalità che si è registrato è spiegabile con il miglioramento delle terapie, che è continuato anche quando si è superato il picco delle diagnosi dovute alla novità del test.
Fino ai primi anni del secolo attuale, probabilmente anche a causa della diffusione di questo test, si è osservato un aumento nel numero di nuovi casi di tumore alla prostata scoperti ogni anno. La tendenza è emersa innanzitutto negli Stati Uniti, dove il test del PSA è stato utilizzato inizialmente, ed è poi comparsa anche in Europa e in Italia. Nel nostro Paese l’incremento è stato maggiore nel nord Italia, dove il cosiddetto self-screening, l’esecuzione del PSA su richiesta del paziente, si è diffuso maggiormente. In tempi recenti si sta osservando una diminuzione dell’uso del test del PSA e una parallela diminuzione dell’incidenza del tumore della prostata.
Parte della comunità scientifica concorda sul fatto che introdurre lo screening del PSA per certe fasce d’età potrebbe ridurre fino al 20 per cento la mortalità per tumore della prostata. Tuttavia, per ogni individuo salvato non è trascurabile il numero di persone che ricevono invece una diagnosi di tumore e una terapia ininfluente sulla durata della vita, che però incide negativamente sulla qualità della vita stessa. Nel più importante studio sull’argomento – lo studio europeo European Randomized Study of Screening for Prostate Cancer (ERSPC) – i ricercatori hanno per esempio stimato che, per ogni vita salvata grazie alla diagnosi precoce di tumore alla prostata tramite PSA, altri 18 uomini scoprono di avere un cancro che non darebbe loro problemi. Poiché non è sempre possibile distinguere tra cancri indolenti e aggressivi, queste persone vengono comunque curate, subendo gli effetti indesiderati delle terapie, per una malattia che non avrebbe avuto modo o tempo di manifestarsi durante la loro vita, se non si fossero sottoposti all’esame.
Per quanto riguarda l’organizzazione di uno screening di popolazione la comunità medico-scientifica si trova in una situazione di incertezza, perché su una scala così grande di popolazione i benefici non superano gli effetti collaterali negativi. Per questa ragione fino a oggi nessuna Agenzia europea di sanità pubblica ha proposto lo screening organizzato del tumore della prostata.
Se il valore del PSA risulta elevato è fondamentale seguire precise indicazioni proprio per ridurre al minimo il numero di biopsie inutili.
Un PSA elevato è infatti quasi sempre seguito da accertamenti diagnostici invasivi e trattamenti che possono essere gravati, in una percentuale variabile di casi, da complicazioni rilevanti. La biopsia ecoguidata (trans-rettale o trans-perineale), infatti, è spesso accompagnata (specie la trans-rettale) da complicanze quali emorragie e infezioni.
Il rischio di complicanze gravi o di decessi durante un intervento per l’asportazione della prostata o nel decorso post-operatorio è invece minimo. In seguito però si possono verificare incontinenza urinaria e soprattutto impotenza, transitorie o permanenti, in percentuali variabili dipendenti dall’estensione della malattia e dall’esperienza del chirurgo.
Finora non ci sono prove certe che le più moderne tecniche robotiche siano in grado di ridurre il rischio di questi effetti indesiderati rispetto a quelle tradizionali. Disturbi di questo tipo possono seguire, in percentuali diverse, anche la radioterapia che provoca più spesso complicazioni rettali e anali, come dolore, urgenza alla defecazione e perdite. Anche la terapia ormonale, che consiste nella soppressione degli androgeni ed è utilizzata soprattutto nei pazienti più anziani o con malattia più avanzata, può provocare effetti collaterali.
Fin dall’inizio, si è quindi cercato di capire come limitare queste conseguenze, che colpiscono anche pazienti che non avrebbero mai manifestato la malattia.
L’obiettivo è infatti evitare, da un lato, il rischio di sovradiagnosi e quindi di trattamenti in eccesso che potrebbero creare più problemi che vantaggi per i pazienti. Dall’altro lato occorre anche scoprire il tumore prima che sia già in fase avanzata, compromettendo così la possibilità di guarigione. Fra i diversi approcci utilizzati per migliorare l’accuratezza diagnostica del PSA c’è la cosiddetta PSA density, ossia il rapporto tra PSA circolante e dimensioni della ghiandola prostatica misurata tramite ecografia. La ragione per cui si calcola questo rapporto è che la quantità di PSA rilasciato in circolo per grammo di tessuto ghiandolare è molto superiore nel cancro rispetto a quanto avviene nella forma benigna di ipertrofia prostatica. In diversi studi è stato infatti dimostrato che la PSA density ha un’accuratezza diagnostica maggiore rispetto al PSA totale.
Nei casi di tumore in fasi più precoci si sta diffondendo un approccio di sorveglianza attiva. I pazienti si sottopongono a controlli ravvicinati per cogliere precocemente una eventuale accelerazione nella crescita del tumore e in tal caso intervenire. Recenti analisi hanno evidenziato come in questi casi la PSA density possa rappresentare un importante fattore predittivo sulla progressione del tumore.
Alla luce dei possibili benefici ed effetti collaterali, ognuno deve soppesare bene con l’aiuto del proprio medico se aggiungere il PSA agli esami di routine.
Nella valutazione occorre tener conto anche dell’età. L'esame, infatti non è mai raccomandato in assenza di sintomi, ma può essere preso in considerazione da chi, debitamente informato, volesse comunque eseguirlo, tra i 50 e i 70 anni.
Anche secondo gli studi più favorevoli, infatti, lo screening offre qualche vantaggio in termini di sopravvivenza solo agli uomini in questa fascia di età: tra i più giovani la malattia è troppo rara e oltre la soglia dei 70, ma forse anche prima, la scoperta di avere un tumore alla prostata non cambierebbe l’aspettativa di vita. E il prezzo sarebbe un peggioramento della qualità di vita, dovuto alla consapevolezza di avere un cancro e agli effetti di eventuali interventi e terapie.
Per questo, lo screening tramite la misurazione del PSA per la diagnosi di tumore della prostata rimane un problema ancora aperto e la maggior parte delle linee guida non è favorevole a screening di popolazione. Misurare il PSA in una persona sana e senza sintomi è esplicitamente sconsigliato in alcune linee guida. La maggior parte delle società scientifiche propone piuttosto di offrire il test agli uomini interessati, soltanto dopo che siano stati informati accuratamente sui benefici e sui rischi. In ogni caso, prima dei 50 anni e dopo i 70-75 dovrebbe essere comunque sconsigliato. Le nuove raccomandazioni europee, pubblicate a settembre 2022, consigliano l’esecuzione del test del PSA nei maschi fino a 70 anni, seguito, in caso di PSA compreso fra 3 e 10, da una risonanza magnetica multiparametrica. È questo un particolare tipo di risonanza magnetica che permette di osservare la morfologia della ghiandola prostatica mettendo in luce diversi parametri.
Recenti studi dimostrano che la risonanza magnetica multi-parametrica può aiutare a discriminare fra un tumore aggressivo e uno con minore possibilità di diventarlo. I tumori sono classificati come non aggressivi quando soddisfano alcune caratteristiche istologiche (es. un valore di Gleason minore o uguale a 6) e sono quelli per cui è più probabile che avvenga una sovradiagnosi. In diverse analisi, questa tecnica si è rivelata sensibile e specifica per identificare l’adenocarcinoma prostatico e valutare lesioni sospette in pazienti con valori alti di PSA o esami clinici positivi. Per rendere più affidabile e standardizzato tale esame, si utilizzano protocolli dedicati e si utilizza un sistema di classificazione del rischio di malattia da 1 (poco probabile) a 5 (altamente probabile). Tale classificazione viene chiamata PI RADS, e indirizza l’urologo verso l’opportunità o meno di eseguire prelievi mirati (generalmente per valori PI RADS ≥3).
La biopsia prostatica resta sempre l’esame fondamentale per arrivare alla diagnosi definitiva di tumore, ma la risonanza magnetica può determinare un notevole aumento nella precisione della diagnosi, identificando le aree bersaglio dove concentrare i prelievi e l’estensione locale del probabile tumore. Queste informazioni, unite ad altri parametri clinici e di laboratorio, nelle mani di un clinico esperto sono molto preziose per indirizzare i pazienti verso il trattamento più indicato.
L’indicazione di sottoporsi al test a partire dai 40 anni in caso si siano verificati altri tumori alla prostata in famiglia non è attualmente sostenuta da prove scientifiche convincenti. Ma è necessario analizzare ogni singolo caso con attenzione.
Una volta ritirati i risultati degli esami è importante non allarmarsi se si trova un asterisco che segnala un valore alterato di PSA. Il dosaggio del PSA può risultare alterato per moltissime ragioni, per esempio patologie benigne della prostata, insufficienza renale, un’esplorazione rettale, una recente attività sessuale o l’uso di farmaci molto comuni e perfino della bicicletta. I valori fluttuano inoltre in base al peso corporeo, all’etnia e perfino in relazione alle stagioni dell’anno.
Un singolo riscontro di valori superiori alla media non deve quindi destare particolare preoccupazione, anche perché non esiste una soglia di sicura positività: in parte dipende dall’età (il PSA tende a crescere con l’età). Normalmente si considera degna di attenzione una concentrazione di PSA superiore a 3ng/mL, ma valori inferiori non permettono di escludere completamente la malattia. La biopsia conferma la presenza di un tumore in meno di un uomo su quattro con valori di PSA compresi tra 3 e 10 ng/mL. Se i livelli sono molto elevati il sospetto di un tumore si fa invece più fondato. Più che il valore assoluto, però, sembra che abbia una rilevanza maggiore l’andamento nel tempo del PSA, mentre la percentuale di PSA libero, cui un tempo si dava particolare importanza, sembra attualmente aver perso di interesse.
Sarà il medico a stabilire, in relazione al risultato dell'esame, all’età e alle condizioni del paziente, se ripetere l’esame a distanza di tempo o eseguire subito una biopsia ed eventualmente, prima, una risonanza magnetica multiparametrica.
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Redazione