Ultimo aggiornamento: 19 maggio 2022
Titolo originale dell'articolo: CDK12 promotes tumorigenesis but induces vulnerability to therapies inhibiting folate one-carbon metabolism in breast cancer
Titolo della rivista: Nature Communications
Data di pubblicazione originale: 12 maggio 2022
Identificata una nuova vulnerabilità che interessa circa il 23 per cento dei tumori della mammella. Per colpirla è già disponibile un farmaco utilizzato nella pratica clinica. Presto al via la sperimentazione clinica per confermare la validità di questo approccio.
Oltre il 20 per cento dei tumori al seno sembrano essere causati e resi aggressivi da una proteina denominata CDK12, capace di conferire alle cellule tumorali un metabolismo "potenziato". Questa stessa proteina, però, rappresenta una vulnerabilità per le cellule tumorali e alcuni farmaci già disponibili sono in grado di interferire con il suo funzionamento. Potrebbe diventare così possibile colpire tumori che esprimono questa proteina a livelli elevati e non rispondono ad altri tipi di chemioterapie.
È quanto hanno scoperto alcuni ricercatori dell’Istituto europeo di oncologia (IEO) coordinati da Salvatore Pece, professore ordinario di patologia generale all’Università statale di Milano e direttore del laboratorio Tumori ormono-dipendenti e patobiologia delle cellule staminali dello IEO.
Lo studio, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, apre la strada a un nuovo approccio terapeutico per i tumori al seno caratterizzati da questa caratteristica molecolare. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications.
“Non succede spesso di identificare un ‘triangolo d’oro’ per la medicina di precisione come questo: un marcatore di aggressività clinica della patologia, che è allo stesso tempo una vulnerabilità per il tumore, a cui si aggiunge anche la disponibilità di un farmaco in grado di colpire questi meccanismi” dice Pece.
La prima scoperta è avvenuta in esperimenti con animali di laboratorio, nei quali l’espressione eccessiva del gene CDK12 (Cyclin-Dependent Kinase 12) è in grado di causare il tumore del seno. “Si tratta di un oncogene che ha un ruolo determinante in più del 23 per cento dei tumori al seno” dice Pece. “Quando la sua espressione è molto elevata, determina anche un comportamento particolarmente aggressivo del tumore. Ciò avviene poiché cambia il metabolismo all’interno delle cellule tumorali, che diventano di conseguenza in grado usare in modo esagerato il glucosio per alimentare la via del folato.”
Questa caratteristica è da un lato un vantaggio per le cellule tumorali, dall’altro lato è però anche il loro tallone di Achille, un punto debole che può essere colpito da specifici farmaci.
“Farmaci detti antimetabolici o antifolato venivano utilizzati già 20 anni fa, quando sembravano essere molto promettenti per il trattamento del tumore al seno. Nel corso del tempo però alcuni sono stati usati sempre meno perché non funzionavano bene su tutte le pazienti e non si riusciva a identificare quali fossero quelle che potevano trarne benefici.”
Uno di essi, in particolare, chiamato metotrexato e ancora utilizzato, è stato oggetto degli studi e ha dimostrato di essere efficace sia in esperimenti con animali di laboratorio con tumori al seno umani, sia in analisi retrospettive di dati clinici relativi a donne con tumore al seno e alta espressione di CDK12 che in passato si erano sottoposte a questo trattamento.
Il prossimo passo dei ricercatori sarà dare il via a una sperimentazione clinica che confermi questi risultati. “Contiamo di partire entro la fine dell’anno allo IEO e in altri centri” dice Pece. “L’idea è di valutare l’efficacia del metotrexato, da solo o in abbinamento ad altri farmaci, in donne con tumore al seno con alta espressione di CDK12 con malattia metastatica e in cui le prime linee di terapia non abbiano mostrato efficacia. Ci aspettiamo che i risultati di questi studi possano offrire un’ulteriore opzione terapeutica per queste donne con una malattia particolarmente aggressiva.”
Per il futuro, continua Pece, “si potrebbe immaginare di assumere il farmaco come terapia di mantenimento dopo aver completato i trattamenti di prima linea. Esistono già primi dati promettenti su questo approccio: è tuttavia un’ipotesi da esplorare in maniera approfondita in studi clinici prospettici” conclude il ricercatore.
Antonino Michienzi