Tumore ovarico: due storie cliniche a confronto

Ultimo aggiornamento: 13 marzo 2023

Tumore ovarico: due storie cliniche a confronto

Titolo originale dell'articolo: Case report: variable response to immunotherapy in ovarian cancer: Our experience within the current state of the art

Titolo della rivista: Frontiers in immunology

Data di pubblicazione originale: 19 dicembre 2022

Due pazienti con tumore ovarico possono rispondere in modo del tutto diverso allo stesso trattamento con immunoterapia, aiutando i ricercatori a valutare i prossimi passi da seguire.

La ricerca per una nuova cura contro il tumore ovarico procede, nonostante le difficoltà. Questa forma di neoplasia si manifesta con sintomi generici, come dolore e gonfiore addominale, che, spesso sottovalutati, possono portare a diagnosticare il tumore quando è già in stadio avanzato. Negli ultimi anni le terapie tradizionali, che prevedevano chirurgia e chemioterapia a base di platino, sono state affiancate da farmaci a bersaglio molecolare come il bevacizumab e gli inibitori di PARP. Ciò nonostante il cancro ovarico resta una malattia ancora difficile da curare.

Alla ricerca di nuove cure, nello studio clinico JAVELIN Ovarian 100 alcuni ricercatori hanno indagato gli effetti della chemioterapia combinata con avelumab. Quest’ultimo è un anticorpo monoclonale che attiva la risposta immunitaria contro le cellule tumorali, bloccando il meccanismo di regolazione PD1-PDL1. Grazie al sostegno di AIRC, il gruppo di ricerca guidato da Emanuela Marcenaro dell’Università di Genova ha descritto i casi di due pazienti partecipanti allo studio clinico, pubblicando i risultati sulla rivista Frontiers in Immunology. Le loro vicende cliniche, così diverse, messe a confronto mostrano alcune criticità dello stato della ricerca su questo tipo di cancro, suggeriscono da dove ripartire e ci ricordano che dietro i numeri della scienza si nascondono esperienze di vita.

 

Lo studio clinico

Dopo la diagnosi di tumore ovarico sieroso in stadio avanzato, entrambe le pazienti sono state sottoposte a chemioterapia neoadiuvante per rendere la neoplasia operabile. Quindi il tumore è stato rimosso chirurgicamente e le pazienti hanno fatto alcuni cicli di chemioterapia adiuvante, per poi passare alla cura di mantenimento a base di avelumab. Nessuna delle due aveva parenti malati di tumore o era a conoscenza di essere portatrici di mutazioni genetiche predisponenti al cancro all’ovaio. Per tutelare la loro privacy ci riferiremo a loro con nomi di fantasia.

Paziente A: Annalisa

A 71 anni, un giorno d’estate del 2017 Annalisa prova improvvisamente difficoltà a respirare e sente un forte dolore addominale. Si reca quindi in ospedale dove viene sottoposta a diversi esami. I risultati della tomografia computerizzata segnalano alcune anomalie, come dei noduli peritoneali. In seguito la biopsia rivela la diagnosi di tumore ovarico. Dopo aver seguito il percorso clinico descritto sopra con buoni risultati, Annalisa può iniziare la cura di mantenimento a base di avelumab. Rimane così “in risposta completa” per 12 mesi, ma dopo 19 cicli di terapia deve interrompere, perché ha una ricaduta. Deve ricominciare tutto da capo sottoponendosi di nuovo a terapie adiuvanti e rimozione chirurgica. Tuttavia un periodo di 12 mesi libero da malattia per un tumore ovarico aggressivo e in stadio avanzato come il suo è un dato molto importante, soprattutto perché Annalisa oggi è ancora viva e risponde ai trattamenti.

Paziente B: Barbara

Per 75 anni Barbara ha sempre goduto di buona salute, ma l’11 aprile 2017 avverte costipazione e dolori addominali. I primi esami rivelano alcune anormalità, e la biopsia peritoneale e l’analisi istologica confermano che si tratta di tumore ovarico. Segue lo stesso percorso clinico di Annalisa e inizia l’immunoterapia, ma dopo soli 4 mesi e 8 cicli deve smettere. I marcatori rivelano che la malattia sta progredendo e ci sono di nuovo delle masse tumorali nella membrana peritoneale. Sfortunatamente non sarà possibile curare Barbara.

Due storie così simili con due esiti così differenti, che cosa vorrà dire?

Due casi sono troppo pochi per trarre delle conclusioni statisticamente solide, ma sono abbastanza per evidenziare alcune criticità sullo stato della ricerca. I tumori delle due pazienti, all’apparenza così simili, avevano in realtà delle differenze a livello molecolare, ma a oggi non esiste ancora un sistema validato per predire in casi di questo tipo la risposta ai trattamenti. I diversi esiti, a parità di diagnosi e trattamenti, segnalano la necessità di trovare modi più precisi di identificare le pazienti nelle quali l’immunoterapia può conferire un vantaggio. La selezione è importante sia per evitare effetti collaterali inutili a chi non risponde a questi farmaci, sia per la sostenibilità del sistema sanitario, considerati i costi elevati. Peraltro, lo studio clinico JAVELIN Ovarian 100, a cui hanno partecipato le due pazienti, è stato interrotto poiché non si è osservato un miglioramento della sopravvivenza libera da malattia con avelumab rispetto alla terapia standard. Ciò non significa che l’immunoterapia sia del tutto inefficace per le pazienti con tumore ovarico, ma è necessario comprenderne meglio il possibile ruolo, per esempio riformulando le dosi, i tempi e identificando meglio in quali pazienti la cura possa essere più efficace. Per questo bisognerà riuscire a descrivere le caratteristiche di ogni singolo tumore attraverso dettagliate analisi di biologia molecolare. Le storie cliniche di Annalisa e Barbara ci aiutano a capire come la ricerca spesso proceda per tentativi e ogni insuccesso in realtà serva a pianificare i passi successivi. L’analisi e il confronto di più studi clinici basati su campioni di centinaia e migliaia di pazienti potranno fornire indicazioni per sviluppare trattamenti sempre più personalizzati e mirati.

  • Camilla Fiz

    Scrive e svolge attività di ricerca nell’ambito della comunicazione della scienza. Proviene da una formazione in comunicazione della scienza alla SISSA di Trieste, in biotecnologie molecolari all’Università degli studi di Torino e in pianoforte al Conservatorio Giuseppe Verdi della stessa città. Oggi è PhD student in Science, Technology, Innovation and Media studies presso l’Università di Padova e collabora con diversi enti esterni. Il suo sito: https://camillafiz.wordpress.com/