Tumore alla prostata aggressivo: dove non arriva la biopsia, potrebbe arrivare il test NEMO

Ultimo aggiornamento: 16 aprile 2024

Tumore alla prostata aggressivo: dove non arriva la biopsia, potrebbe arrivare il test NEMO

Titolo originale dell'articolo: Noninvasive Detection of Neuroendocrine Prostate Cancer through Targeted Cell-free DNA Methylation

Titolo della rivista: Cancer Discovery

Data di pubblicazione originale: 1 marzo 2024

Ricercatori sostenuti da AIRC all’Università di Trento hanno sviluppato un test per diagnosticare in modo pratico e accurato il tumore alla prostata neuroendocrino resistente alla castrazione. Dopo i primi risultati positivi, ottenuti in animali di laboratorio e su campioni di pazienti, il gruppo di ricerca sta cercando di validare il sistema in studi clinici.

Grazie anche all’ampia disponibilità di strumenti diagnostici per il tumore alla prostata, in Italia nel 2023 la sopravvivenza dei pazienti a 5 anni dalla diagnosi di questo tumore è stata del 91 per cento circa. La situazione è molto diversa, però, per le forme più aggressive, più difficili sia da curare sia da diagnosticare. Al momento l’unico strumento di diagnosi per questi casi è infatti la biopsia delle metastasi, che prevede di prelevare una porzione di tessuto tumorale. Si tratta di uno strumento molto invasivo, spesso impraticabile e inefficace per i numerosi casi in cui il cancro è eterogeneo. Con il test NEMO (dall’inglese Neuroendocrine detection and MOnitoring assay), si intende superare alcuni di questi limiti identificando in modo precoce e pratico un tumore alla prostata molto aggressivo, quello di tipo neuroendocrino resistente alla castrazione (CRPC-NE). Il sistema si basa sulla rilevazione e quantificazione di alcune modificazioni epigenetiche, ovvero alterazioni che influenzano l’attività del DNA senza cambiarne la struttura, e che possono essere rilevabili in frammenti di DNA dispersi nel circolo sanguigno, chiamati “cell-free DNA” (cfDNA). Il progetto è stato sviluppato dal gruppo di ricerca di Francesca Demichelis dell’Università di Trento, in collaborazione con il gruppo di Himisha Beltran del Dana Farber Cancer Institute, grazie anche al sostegno di Fondazione AIRC. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Cancer Discovery.

Le cellule tumorali riescono a evolvere in fretta in forme aggressive, come il CRPC-NE, una forma di tumore caratterizzata da numerose alterazioni epigenetiche. In particolare, sul DNA delle cellule di questo tumore sono presenti gruppi metili che possono modificare l’espressione di geni strategici, che ne favoriscono la crescita e la resistenza ai trattamenti. Agli occhi di una ricercatrice esperta, come Francesca Demichelis, queste alterazioni non sono solo segnali importanti dello sviluppo neoplastico, ma anche informazioni preziose a fini diagnostici. “Lo stato di metilazione del DNA di una cellula si definisce in base a quali e quanti punti del DNA hanno appunto gruppi metile aggiunti. È un dato estremamente rilevante per identificare il tipo di cellula e le sue condizioni” commenta la ricercatrice.

Per sviluppare NEMO, il gruppo di ricerca ha quindi deciso di focalizzarsi sui livelli di metilazione del cfDNA, un tipo di DNA frammentato e rilasciato nel sangue da cellule sia normali, sia tumorali. “Analizzare i livelli di metilazione del cfDNA e confrontare l’abbondanza di frammenti tumorali circolanti, rispetto ai frammenti normali, consente di verificare lo stato della malattia” spiega Francesca Demichelis. “Spesso tale abbondanza relativa è anche indicativa della risposta dei pazienti al trattamento in corso.” Oltre a fornire un grande numero di informazioni, il fatto che il cfDNA sia presente e rilevabile nel circolo sanguigno renderebbe il test molto pratico e ripetibile, se la sua efficacia dovesse essere confermata in ulteriori studi clinici. “Basta un prelievo di pochi millilitri di sangue per estrarre il materiale necessario a caratterizzare i siti di metilazione di interesse. Ciò renderebbe possibile anche eseguire più prelievi nel corso della malattia.”

Il sistema funziona in modo semplice. Dopo il prelievo di sangue, il cfDNA viene estratto, sequenziato e sottoposto al test NEMO, con il quale è possibile analizzare le caratteristiche di particolari siti del DNA. L’approccio è infatti mirato perché si valutano specifiche regioni genomiche che, secondo studi precedenti, aiuterebbero a distinguere l’insorgenza di CRPC-NE e a quantificare l’abbondanza dei frammenti tumorali in circolazione. NEMO dunque qualifica e classifica il segnale di metilazione e risponde assegnando due punteggi. Come spiega la ricercatrice, “da un lato fornisce la percentuale di materiale tumorale che può essere utilizzata per monitorare la risposta del paziente alle cure. Dall’altro segnala l’eventuale presenza di malattia di tipo CRPC-NE, come indicazione diagnostica”.

Secondo i risultati dello studio, il test NEMO sembra dare risultati accurati e affidabili sia in numerosi sistemi sperimentali di laboratorio, tra cui cellule di tumore alla prostata in coltura, organoidi e tessuti di origine animale, sia su campioni ottenuti da 222 pazienti. Per esempio, il test NEMO è stato applicato, sperimentalmente e retrospettivamente, a campioni di sangue di pazienti a cui era già stata diagnosticata una forma avanzata di tumore alla prostata. Nell’85 per cento dei casi il test è riuscito a identificare in modo corretto i pazienti con CRPC-NE, mentre nel 95 per cento dei casi ha individuato coloro in cui la neoplasia non si era ancora trasformata in questa forma più aggressiva. I dati dello studio hanno inoltre evidenziato una correlazione tra i livelli di cfDNA tumorale e la prognosi dei pazienti.

Dunque, ci sono tutte le premesse perché NEMO possa contribuire alla diagnosi di CRPC-NE in modo accurato e pratico. In futuro potrebbe affiancare o persino sostituire la biopsia tissutale ed essere utile anche per monitorare la risposta dei pazienti con CRPC-NE alle terapie. Tuttavia, prima che questo avvenga bisognerà raccogliere ulteriori dati su pazienti. “Ora stiamo cercando di validare NEMO in alcuni studi clinici” conclude Francesca Demichelis. “I nostri laboratori, soprattutto di ricerca computazionale di base, non sono adatti per fare il salto verso un test clinico. Ci auguriamo che i risultati positivi che stiamo ottenendo sollecitino l’interesse di investitori e finanziatori per portare NEMO nella pratica clinica.”

  • Camilla Fiz

    Scrive e svolge attività di ricerca nell’ambito della comunicazione della scienza. Proviene da una formazione in comunicazione della scienza alla SISSA di Trieste, in biotecnologie molecolari all’Università degli studi di Torino e in pianoforte al Conservatorio Giuseppe Verdi della stessa città. Oggi è PhD student in Science, Technology, Innovation and Media studies presso l’Università di Padova e collabora con diversi enti esterni. Il suo sito: https://camillafiz.wordpress.com/