Ultimo aggiornamento: 28 agosto 2023
Titolo originale dell'articolo: Peptide-Functionalized and Drug-Loaded Tomato Bushy Stunt Virus Nanoparticles Counteract Tumor Growth in a Mouse Model of Shh-Dependent Medulloblastoma
Titolo della rivista: International Journal of Molecular Sciences
Data di pubblicazione originale: 17 maggio 2023
In esperimenti con animali di laboratorio, il virus della pianta di pomodoro è stato utilizzato come mezzo di trasporto per veicolare un chemioterapico nella sede tumorale. Si apre così la strada allo studio di una nuova strategia per la cura del medulloblastoma, il tumore al cervello più frequente nei bambini.
Il medulloblastoma è il tumore più frequente tra i bambini. In genere si manifesta prima dei 3 anni, dopo i 16 e solo in rari casi tra i 4 e i 5 anni. Nei ragazzi più grandi i progressi nelle terapie degli ultimi anni, come rimozione chirurgica, radioterapia e chemioterapia, hanno portato a una sopravvivenza tra il 70 e l’80 per cento a 5 anni dalla diagnosi, mentre nei bambini al di sotto dei 5 anni il successo delle cure non supera il 5 per cento dei casi. Uno dei motivi è che in questa fascia d’età spesso gli effetti collaterali delle cure superano i benefici. Per esempio, la radioterapia viene utilizzata solo di rado, perché sul lungo termine può causare un declino delle funzioni cognitive e fisiche, una compromissione dell’udito e della fertilità e incrementare il rischio di recidive. È quindi più che mai urgente trovare nuove terapie rivolte ai più piccoli. Il gruppo di ricerca diretto da Mariateresa Mancuso al Centro Ricerche ENEA Casaccia vicino a Roma ha sperimentato in animali di laboratorio una nuova strategia terapeutica, che sfrutta un Tombusvirus, un virus della pianta di pomodoro, per trasportare un comune chemioterapico dentro la sede tumorale. I risultati dello studio sono stati pubblicati sull’International Journal of Molecular Sciences, grazie al sostegno di AIRC.
Nella pianta di pomodoro il Tombusvirus, detto anche “del rachitismo cespuglioso del pomodoro”, blocca la produzione dei frutti e causa la comparsa di macchie sulle foglie, mentre per gli esseri umani è innocuo. I ricercatori dell’ENEA hanno quindi ingegnerizzato il virus perché esprimesse in superficie un piccolo pezzo di una proteina, detto peptide, in grado di legarsi in modo specifico alla membrana delle cellule del medulloblastoma. Inoltre gli scienziati hanno fatto in modo che il virus modificato potesse trasportare al proprio interno la doxorubicina, un chemioterapico molto utilizzato per curare altri tipi di tumore. L’obiettivo era paragonare l’efficacia del farmaco veicolato dal virus con quello del medicinale libero, ovvero nella forma in cui vengono somministrati di solito i farmaci nella pratica clinica quotidiana.
Dopo aver ingegnerizzato e caricato il virus con il farmaco, i ricercatori hanno valutato l’effetto che produceva in animali di laboratorio, predisposti allo sviluppo del medulloblastoma a causa della presenza della mutazione del gene SHH. Gli animali sono stati divisi in tre gruppi: il primo è stato trattato con la doxorubicina libera, il secondo con il farmaco veicolato dal virus a una concentrazione 5 volte inferiore a quella utilizzata in forma libera, e il terzo con il placebo, ovvero con un trattamento “finto”, privo di principi attivi, usato come controllo. Dopo 4 somministrazioni della terapia in due settimane, il farmaco antitumorale trasportato dal virus si è dimostrato più efficace di quello in forma libera. La doxorubicina veicolata dal virus ha infatti portato a una maggiore mortalità delle cellule tumorali e a una maggiore inibizione della loro proliferazione, provocando al contempo minori effetti collaterali. Questi risultati si sono verificati negli stadi sia iniziali sia avanzati della malattia.
Soprattutto nel caso di un tumore come il medulloblastoma, sviluppare nuovi mezzi per veicolare i farmaci assume una particolare importanza. Il cervello è infatti protetto dalla barriera emato-encefalica, che impedisce l’ingresso di agenti estranei potenzialmente dannosi. Questa struttura è cruciale per la nostra sopravvivenza, ma può anche limitare o bloccare del tutto l’ingresso dei farmaci nell’area malata. Nonostante questi risultati siano molto promettenti, la ricerca dovrà continuare prima di poter valutare questa strategia terapeutica negli esseri umani.
Camilla Fiz