Un’opzione di cura per alcuni casi di tumore al seno triplo negativo, grazie all’acido retinoico

Ultimo aggiornamento: 25 gennaio 2021

Un’opzione di cura per alcuni casi di tumore al seno triplo negativo, grazie all’acido retinoico

Titolo originale dell'articolo: Retinoic Acid Sensitivity of Triple-Negative Breast Cancer Cells Characterized by Constitutive Activation of the notch1 Pathway: The Role of Rarβ

Titolo della rivista: Cancers

Data di pubblicazione originale: 18 ottobre 2020

Alcuni tumori della mammella tripli negativi, caratterizzati da una precisa caratteristica genetica, rispondono al trattamento con acido retinoico. Con un semplice test si potrebbero identificare le donne in cui il trattamento potrebbe funzionare.

L’acido retinoico, una variante della vitamina A, potrebbe essere un’opzione terapeutica efficace per curare alcuni tumori al seno tripli negativi caratterizzati dall’attivazione di una proteina definita NOTCH1. Questo effetto, inoltre, potrebbe essere potenziato dall’utilizzo contestuale di farmaci contro tale proteina.

Questi risultati sono emersi nell’ambito di uno studio condotto dal gruppo di ricerca coordinato da Enrico Garattini presso l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano.

I tumori al seno tripli negativi rappresentano circa il 20 per cento di tutti i tumori del seno e devono il loro nome al fatto che sulle cellule tumorali non sono presenti i bersagli contro cui sono mirati i farmaci più innovativi contro la malattia. Proprio per questa ragione, i tumori al seno tripli negativi sono particolarmente difficili da aggredire.

“L’acido retinoico è il primo esempio di agente differenziante in ambito oncologico. Non funziona infatti come i normali chemioterapici, che causano la morte delle cellule tumorali, ma fa sì che queste si differenzino, acquisendo nuovamente caratteristiche più simili alle cellule sane di origine” spiega Garattini, la cui attività di ricerca è sostenuta anche da Fondazione AIRC.

Questa peculiarità ha reso da anni l’acido retinoico un caposaldo nel trattamento della leucemia acuta promielocitica, trasformando drammaticamente la prognosi di questa malattia.

“Da qualche tempo ne stiamo studiando l’efficacia nel cancro della mammella” illustra Garattini. “In uno studio che abbiamo condotto qualche tempo fa, abbiamo scoperto che circa il 70-75 per cento delle cellule di tumore al seno di tipo luminale rispondeva al trattamento con acido retinoico. Invece le cellule di tumori al seno tripli negativi erano quasi tutte resistenti al trattamento, fatta eccezione per un 4-5 per cento di campioni in cui l’acido retinoico risultava efficace. Ci siamo quindi chiesti se esistessero dei biomarcatori in grado di predire la sensibilità all’acido retinoico in questo sottotipo di tumore mammario”.

Nel nuovo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cancers, dopo aver esposto alla sostanza diversi campioni di tumori tripli negativi, i ricercatori hanno approfondito le caratteristiche molecolari del gruppo che rispondeva al trattamento. “Abbiamo osservato che queste cellule cresciute in coltura erano caratterizzate dall’attivazione costitutiva di una proteina di membrana che si chiama NOTCH1” spiega Garattini. Secondo il ricercatore, mettendo a punto uno strumento diagnostico basato sull’espressione del gene NOTCH1, si potrebbero ora individuare le pazienti che trarrebbero beneficio dal trattamento con acido retinoico.

Questa stessa caratteristica, inoltre, potrebbe essere riscontrata anche in altri tumori.

“Naturalmente non ci aspettiamo che l’acido retinoico possa funzionare come terapia singola” precisa il ricercatore. “Per questo ne stiamo verificando l’efficacia in combinazione con dei farmaci denominati inibitori della gamma secretasi, che agiscono interferendo con l’azione di NOTCH1. Abbiamo già osservato che, impiegati insieme, acido retinoico e inibitori della gamma secretasi hanno un effetto sinergico, il che consente di aumentare l’efficacia e ridurre i dosaggi. Il prossimo passo potrebbe essere dunque una sperimentazione clinica nelle pazienti per verificare l’efficacia di questo approccio”.

  • Antonino Michienzi