Quei cinque mesi che mi hanno fatto capire che avrei fatto il ricercatore

 

Era il 2008, avevo 22 anni e per il tirocinio della tesi della laurea triennale decisi di andare in Olanda, al Cancer Center della VU University, ad Amsterdam.

Vi ho trascorso soltanto 5 mesi, ma sono stati tra i più intensi e decisivi della mia vita professionale. Ho collaborato a una ricerca in cui si stava cercando di capire come determinate varianti genetiche potessero incidere sugli esiti di alcune terapie contro il cancro al polmone. Ne è uscito un articolo che, ancora oggi, ad anni di distanza, continua a essere citato. Vedere che quello che abbiamo fatto ha trovato un riscontro nella comunità scientifica e medica ha di certo contribuito a consolidare la mia decisione di continuare a fare ricerca.

È stata una grande soddisfazione e un’occasione di crescita professionale e personale.

Merito anche della tutor che mi ha guidato in quel periodo. È una ricercatrice italiana che, grazie ad AIRC, ha aperto da qualche anno un proprio laboratorio a Pisa: Elisa Giovannetti.

Elisa mi ha indirizzato e mi ha fatto capire l’importanza delle domande: fare quelle giuste e farle nel modo giusto. L’esperimento, infatti, è da un lato il punto di arrivo di un grande lavoro di riflessione che coinvolge l’intero laboratorio, e dall’altro il punto di partenza per una nuova domanda.

La domanda a cui ora sto lavorando, grazie a una borsa iCARE-2 sostenuta da AIRC e dall’Unione Europea alla Universitätsklinikum Hamburg-Eppendorf, ad Amburgo, è perché alcune importanti cellule del sistema immunitario, i linfociti T Natural Killer (in sigla NKT), si comportano in maniera diversa in differenti tumori: nel caso del cancro della prostata contrastano la crescita del tumore, mentre in quello del colon addirittura ne favoriscono la progressione.

La nostra idea è che queste cellule abbiano una plasticità intrinseca, vale a dire che si adattino all’ambiente in cui si trovano: se sono localizzate nell’ambiente “giusto” agiscono contro il tumore, se si trovano nell’ambiente “sbagliato” lo favoriscono. Noi vogliamo capire quali sono i meccanismi che guidano questo diverso comportamento e in che modo possiamo intervenire per ripristinare l’attività anti-tumorale delle cellule NKT.

Se riuscissimo a farlo, potremmo sfruttare a scopo terapeutico la loro capacità di combattere il tumore. Ciò potrebbe avvenire in almeno due modi: potremmo utilizzare farmaci in grado di “sbloccare” queste cellule, come da qualche anno sta avvenendo per alcuni tipi di tumore, e inoltre potremmo tentare un trapianto di cellule NKT da donatore. Queste cellule, infatti, hanno una caratteristica che le rende perfette per questo scopo: non presentano problemi di rigetto, quindi chiunque potrebbe essere un potenziale donatore.

  • Filippo Cortesi

  • Università:

    Universitaetsklinikum Hamburg-Eppendorf, Amburgo

  • Articolo pubblicato il:

    3 aprile 2019