L’autofagia è un processo con cui le cellule degradano una parte di sé quando è danneggiata o non più utile. Fino a qualche anno fa si pensava che l’autofagia fosse legata soltanto alla morte cellulare programmata. Oggi sappiamo che ha un ruolo decisivo anche nel normale funzionamento della cellula lungo tutto il ciclo vitale e che un’autofagia non ottimale può contribuire allo sviluppo di diverse patologie.
Questo processo è considerato così importante che il Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia 2016 è stato attribuito a Yoshinori Ohsumi per la scoperta dei meccanismi di autofagia.
L’autofagia è il campo in cui si inseriscono le mie ricerche. In particolare mi occupo di autofagia mediata da alcune proteine, dette appunto chaperoni, in grado di riconoscere riconoscono altre proteine destinate a essere degradate.
Le proteine hanno una durata limitata: esaurita la propria funzione o il tempo massimo di attività, devono essere eliminate. L’autofagia mediata da chaperoni contribuisce a mantenere in ordine la concentrazione delle diverse proteine, evitando che si accumulino o che rimangano nella cellula proteine alterate.
Quando questo avviene, la cellula può subire danni che possono sfociare nell’insorgenza di malattie, per esempio tumori.
Il mio lavoro riguarda il tumore del fegato: è stato infatti osservato in modelli animali che quando questo meccanismo viene mantenuto attivo per più tempo l’organo rimane sano più a lungo e vengono prevenuti i tipici danni dovuti all’età.
L’idea mia e del gruppo di ricerca dove lavoro è che una inadeguata degradazione delle proteine possa avere un ruolo importante anche nell’insorgenza e nello sviluppo del tumore del fegato. Cercheremo dunque di capire se agendo sulla proteina LAMP2A associata all’autofagia, sia possibile influenzare il rischio di sviluppare il tumore del fegato.
Se così fosse, in futuro potremmo pensare di agire su LAMP2A per intensificare i processi di degradazione delle proteine non più funzionali e dunque prevenire la comparsa del tumore nelle persone a maggior rischio di sviluppare la malattia, per esempio quelle affette da epatite C.
Enrico Desideri
Università:
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”,, Roma
Articolo pubblicato il:
5 settembre 2019