Fare ricerca a mente sgombra. Così cerchiamo cure inattese per una rara leucemia

 

Matteo, che era al'MD Anderson Cancer Center a Houston e voleva tornare in Italia; Anna, candidata per un dottorato di ricerca; Andrea, anche lui candidato a un possibile dottorato. E poi, ricercatori che vengono da altre università per brevi periodi e studenti che si uniscono a noi per un tirocinio.

È questo il piccolo gruppo di ricerca che, dall'inizio dello scorso anno, ho messo insieme all'Università degli Studi di Parma, dove sono rientrato dopo aver trascorso dieci anni negli Stati Uniti, al Dana-Farber Cancer Institute di Boston.

Ci occupiamo in particolare di una grave forma di leucemia mieloide acuta dovuta a un’alterazione genetica, l’eccessiva espressione del gene EVI-1. A oggi per questa malattia non c’è possibilità di cura. Il nostro obiettivo è non solo conoscerla meglio, ma innanzitutto trovare nuovi trattamenti.

Ciò che contraddistingue il nostro lavoro è il particolare metodo che utilizziamo nella nostra attività di ricerca: sfruttiamo le grandi possibilità offerte dalle nuove tecnologie invece che il tradizionale metodo deduttivo.

Convenzionalmente, quando si cerca un nuovo farmaco si segue una sequenza abbastanza definita: si conosce un’anomalia e a quel punto si verifica se un determinato composto è in grado di correggerla.

Ciò, tuttavia, limita molto le possibilità di ricerca.

Per questo noi adottiamo un processo inverso, che ho imparato a sviluppare nei miei anni negli Stati Uniti: non facciamo nessuna ipotesi iniziale, come se di quel tumore non sapessimo nulla, e utilizziamo centinaia o migliaia di molecole per sollecitare una risposta delle cellule tumorali. Dopo aver visto quale molecola si è dimostrata più efficace andiamo a studiare perché ha dato quella risposta.

È un processo “senza pregiudizi”, che non preclude nessuna strada e proprio per questo può dare risposte inattese, che il metodo tradizionale non riesce a fornire.

Grazie ai test effettuati con circa 4.000 molecole, in collaborazione con il Centre for Integrative Biology (CIBIO) di Trento, siamo riusciti a identificare dei composti promettenti. Però è ancora presto per cantare vittoria: occorreranno molti altri test su un numero congruo di malati per essere sicuri della reale efficacia del nostro approccio.

Per ora i risultati ci fanno ben sperare. La tranquillità data da un buon finanziamento che si protrae per qualche anno, inoltre, aiuta la creatività. Che è ciò di cui la ricerca ha bisogno per dare frutti.

  • Giovanni Roti

  • Università:

    Università degli Studi di Parma, Parma

  • Articolo pubblicato il:

    12 giugno 2018