Ultimo aggiornamento: 24 ottobre 2022
La vocazione scientifica può nascere anche dall’impegno sociale e dalla passione per la filosofia, così come le scoperte di base, come quella sulla proteina CDK12 nel cancro al seno, possono portare dritte alla cura del paziente.
"Speriamo che funzioni!” recita il cartello appeso al muro nello studio di Salvatore Pece all’IFOM-IEO Campus di Milano. O meglio, quello è il significato della traduzione di una frase altamente simbolica per chi conosce l’ebraico e la storia della genesi secondo i testi talmudici, e che era molto cara anche al chimico premio Nobel Ilya Prigogine. “Si dice che l’invocazione ‘halway sheyaamod’ sia stata pronunciata dal Creatore dopo numerosi tentativi, ventisette per la precisione, andati male” spiega Pece, che altrettanti tentativi falliti dovette fare prima di riuscire a entrare, alla non più tenera età di 34 anni, in un laboratorio di ricerca d’avanguardia negli Stati Uniti, dopo anni di lavoro divisi tra la ricerca di base in ambito microbiologico e infettivologico e l’attività come medico nella nativa Puglia. Un passaggio necessario per sperare un giorno di dare un contributo significativo alla cura del cancro, come è riuscito effettivamente a fare nella terapia del tumore al seno parecchi anni più tardi, con l’aiuto di AIRC.
“La vita si evolve nell’incontro tra caso e necessità” ama dire Pece facendo riferimento a un famoso saggio del biologo Jacques Monod, che con Prigogine e Isabelle Stengers ha lasciato un segno profondo nella sua formazione di scienziato. La scelta della facoltà di medicina era stata per alcuni versi casuale, perché alla fine del liceo scientifico frequentato con ottimi voti a Foggia era altrettanto interessato agli studi di scienze politiche e di filosofia. Nella città pugliese viveva con il papà Angelo, piccolo imprenditore edile, e la mamma Maria Cristina, casalinga, salvo tornare per le vacanze estive nella natìa Accadia, a una cinquantina di chilometri, paese dell’Irpinia la cui torre dell’orologio continua a considerare ancora oggi, come da bambino, il centro del mondo.
“Ero particolarmente bravo a scuola ma socialmente rissoso” rievoca sorridendo. “Avevo difficoltà ad adattare sentimenti e idee agli schemi della vita sociale, che consideravo non rispettosi della dignità umana.” Per questo in quegli anni si appassionò ai libri di filosofia, in particolare quelli che affrontavano il problema dell’alienazione dell’individuo nel lavoro e nella società, ai testi della teologia della liberazione e alla musica, dividendo il tempo tra la biblioteca, l’impegno sociale e un organo che suo padre gli aveva comprato con enormi sacrifici pur di non prendergli l’agognata motocicletta, e che gli permetteva di suonare le note delle arie di Bach ma anche il rock progressivo dei Procol Harum e delle Orme. “’A wither shade of pale’ e ‘Uno sguardo verso il cielo’ erano canzoni perfette per quello strumento” commenta.
La decisione di iscriversi a medicina è influenzata dall’opera e dalla figura di Giulio Alfredo Maccacaro, direttore dell’Istituto di biometria e statistica medica dell’Università di Milano e fondatore di Medicina democratica, movimento di lotta per la salute. Questa scelta gli sembrava tenere aperte tutte le porte per compiere, dice citando lo stesso Maccacaro, “il viaggio più meraviglioso, non quello intorno al mondo, ma quello intorno all’uomo – così sempre nuovo e diverso, con tutta la sua grandezza e la sua miseria, con l’universo del suo amore e del suo dolore”, prevedendo per sé una vita “con il marchio della radicale incertezza”. La scelta dell’università ricade sulla città di Perugia. “La mia famiglia viveva in quegli anni una situazione economica difficilissima, anche perché mio papà Angelo aveva avuto un ictus che aveva stravolto la sua situazione lavorativa. Scelsi l’Università di Perugia perché era quella che offriva il massimo supporto agli studenti – l’alloggio alla casa dello studente, la mensa, i libri – e assegnava borse di studio non solo per reddito ma anche per merito” racconta. “Dopo tre anni a Perugia, diventò necessario riavvicinarmi a casa e mi trasferii all’Università di Bari. Allora per me fu un dramma, ma si rivelò una fondamentale tappa per la mia vita e la mia carriera.”
A Bari si laurea nel 1989 (con lode) e, mentre completa il dottorato di ricerca in scienze infettivologiche (sempre con lode) che porterà a termine quattro anni più tardi, comincia a lavorare come guardia medica e facendo sostituzioni per i medici di medicina generale, dopo un breve periodo all’estero presso il laboratorio di farmacologia cellulare e molecolare della Facoltà di farmacia dell’Università di Strasburgo. Al termine del dottorato, entra nella scuola di specialità in microbiologia e virologia, di cui frequentava il laboratorio, occupandosi di diagnostica dell’AIDS e di patogeni opportunisti, il nuovo flagello che in quegli anni mieteva vittime soprattutto tra omosessuali e tossicodipendenti, unendo a questo un impegno diretto per diffondere cultura della prevenzione e intervenire sul disagio in varie fasce della marginalità.
Completata la specializzazione (con lode), ottiene un posto come ricercatore in patologia generale all’Università di Bari, e qui di nuovo il caso interviene a mettere sulla sua strada un ricercatore di pochi anni più vecchio di lui, che, dopo essersi formato a Napoli e aver trascorso lunghi periodi al National Cancer Institute di Bethesda, aveva ottenuto la cattedra di professore associato in patologia generale proprio a Bari: “Quello con Pier Paolo Di Fiore è stato un incontro determinante per la mia vita, che mi fece comprendere la necessità di fare esperienza in laboratori all’avanguardia per continuare a fare il mestiere del ricercatore. Così maturò la decisione di andare negli Stati Uniti. Avevo però 34 anni, e a quell’età di solito si è già tornati dagli USA”.
La decisione di varcare l’oceano nasce da una necessità così forte da non lasciarsi scoraggiare dalle 27 lettere di diniego, ricevute da altrettanti laboratori di scienziati oltreoceano contattati, che giudicavano la sua formazione e la sua età non adeguate all’inizio di un percorso di ricerca scientifica. È il 1998 quando viene accettato ai National Institutes of Health di Bethesda, nel laboratorio di Silvio Gutkind, al quale lo lega ancora oggi una grande amicizia. Gli inizi furono molto difficili, lontano dalla sua famiglia che era rimasta in Italia, e con la difficoltà di imparare a muoversi nel mondo della ricerca oncologica molecolare avanzata, ma le soddisfazioni professionali arrivarono a breve: già dopo sei mesi firma il suo primo articolo scientifico con la prestigiosa affiliazione degli NIH e per celebrare l’evento utilizza i primi stipendi per realizzare il sogno di possedere una Harley Davidson, che compra usata da un tenente colonnello dei Marines, e che possiede ancora oggi a distanza di quasi 25 anni (e la cui targa del Maryland è oggi incorniciata e appesa al muro nel suo ufficio, con l’immancabile slogan in inglese: “Non è la destinazione… è il viaggio”). “Comprare una Harley era un desiderio fin da bambino” dice sorridendo e mostrando il modellino di una moto di cui si è innamorato all’età di 5 anni, vedendolo esposto in una vetrina di una drogheria del vicino mercato rionale dove era solito andare con sua madre Maria Cristina.
Il viaggio della ricerca – ispirato da quello che chiama il “fascino della possibilità di scoprire meccanismi nuovi” – lo riporta a Bari, e da lì all’Università Statale di Milano, dove oggi Pece è professore ordinario di patologia generale, e allo IEO, dove inizialmente è accolto nel laboratorio di Di Fiore, per poi diventare responsabile del Laboratorio di ricerca sui tumori ormono-dipendenti e patobiologia delle cellule staminali e coordinatore dell’Unità di patologia digitale e molecolare del Dipartimento di oncologia sperimentale.
Le sue ricerche pubblicate su riviste internazionali studiano i meccanismi molecolari alla base dell’aggressività dei tumori e della loro resistenza alle terapie, e in particolare i processi che determinano la comparsa delle cellule staminali tumorali nel cancro del seno, della vescica e della prostata. L’ultima di queste scoperte, nel maggio di quest’anno, riguarda il ruolo di una specifica proteina, la chinasi ciclina-dipendente 12 (in inglese cyclin-dependent kinase 12, da cui la sigla CDK12). Il gruppo di Pece ha scoperto che le forme di tumore del seno in cui la CDK12 è presente in gran quantità sono più aggressive, tendono più facilmente a dare luogo a metastasi e a sviluppare resistenza alle comuni chemioterapie a base di taxani e antracicline, attraverso una modificazione patologica del metabolismo cellulare. Ma proprio questo meccanismo finisce per costituire il punto di vulnerabilità tumorale a farmaci antimetabolici specifici come il metrotrexato, il cui utilizzo è stato penalizzato in passato per la mancanza di marcatori di risposta specifici. Gli elevati livelli di CDK12 nel tumore possono così essere sfruttati per la terapia personalizzata delle pazienti con tumori mammari chemioresistenti.
In collaborazione con i colleghi oncologi dello IEO, Pece sta lavorando al disegno di protocolli clinici per il trattamento delle pazienti con tumori a elevata espressione di CDK12, usando schemi di terapia a base di metrotrexato da utilizzare sia nel contesto della terapia neoadiuvante pre-operatoria, in combinazione con antracicline e taxani, sia in pazienti con metastasi su cui non hanno funzionato le terapie standard.
In anni recenti Pece ha aggiunto alle sue passioni le barche di legno a vela storiche, e quando possibile si ritira a leggere e scrivere nella sua “Kalliste” (la più bella, in greco), acquistata di seconda mano e da lui risistemata sfruttando la versatilità nel lavoro manuale che è la grande eredità di suo papà Angelo, attraccata sul Lago Maggiore e le cui foto tappezzano in gran numero le pareti del suo studio. Ce n’è una in cui, al giro di boa in una regata di vele storiche, Kalliste appare in testa (“ma è solo un effetto del teleobiettivo, e una piccola civetteria. In realtà sono arrivato secondo” confessa). Anche se il lago non permette di raggiungere destinazioni lontane, oggi è uno dei modi con cui riesce a resistere almeno in parte alla “sirena della scienza” che, mentre offre il “privilegio straordinario” del continuo viaggio di ricerca, in cui la destinazione dell’oggi è una nuova occasione per ridispiegare le vele al vento e continuare all’indomani, richiede passione e dedizione, limitando il tempo che è possibile dedicare ad altri ambiti della vita.
“Maccacaro diceva che la scienza, qualsiasi scienza, ha un unico scopo, un unico valore, un’unica dignità: alleviare all’essere umano la fatica di diventare migliore” spiega Pece, che all’attività e alla missione del medico è rimasto molto legato. “La ricerca scientifica mi ha dato la possibilità di compiere questo viaggio di cui solo oggi comprendo pienamente il senso, e se riesco a contribuire con le mie ricerche a concrete e nuove possibilità di terapia, sono di nuovo al letto del paziente.”
Agenzia Zoe