Ultimo aggiornamento: 20 maggio 2021
Con la scoperta di una forma mutata del gene BRAF, all'origine della leucemia a cellule capellute, il ricercatore perugino ha aperto un nuovo filone di cura in ematologia, portando in soli cinque anni il risultato dal laboratorio al malato.
Dare il tempo alle idee di sedimentare è fondamentale per un ricercatore impegnato senza sosta ad analizzare cellule e molecole, discutere i dati con i propri collaboratori e visitare i propri pazienti. Per questo, nella bella stagione, Enrico Tiacci si concede una pausa e, appunti e dati in mano, si siede al bar accanto al CREO, il Centro di ricerca emato-oncologica guidato da Brunangelo Falini e inaugurato di recente nell'area dell'Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia. Una struttura innovativa, dedicata alla medicina di precisione e al trapianto di midollo osseo, dove le scoperte di base vengono prontamente tradotte in clinica. Dai laboratori moderni e attrezzati, si gode una magnifica vista sulla città.
"Un'emozione senza fine". Ricorda così Enrico Tiacci l'estate del 2010. Era da poco rientrato in Italia e le analisi restituivano, giorno dopo giorno, le conferme alla sua primissima intuizione: a causare la leucemia a cellule capellute (tricoleucemia), un raro tumore ematologico che prende il nome dalle estroflessioni simili a capelli presenti sulla superficie delle cellule cancerose, era sufficiente la mutazione di un unico gene, BRAF, alterato in alcune forme di melanoma ma non ancora coinvolto in patologie ematologiche. "Il 100 per cento dei nostri pazienti con tricoleucemia mostrava una particolare mutazione di BRAF, la V600E, che porta all'attivazione di una nota via di segnale intracellulare in grado di spingere la cellula a dividersi" ci racconta. "Insomma, ci trovavamo di fronte a una malattia geneticamente molto semplice, causata dalla mutazione di un singolo gene in tutti, o quasi, i pazienti". E così, quando la scoperta venne pubblicata sulla rivista New England Journal of Medicine, il brillante scienziato era già al lavoro per arrivare a un trattamento efficace, colpendo selettivamente la lesione genetica identificata. Era il 2011 e per arrivare ai pazienti ci sarebbero voluti altri quattro anni.
Enrico Tiacci appartiene a quel ristretto gruppo di scienziati che ha ottenuto sia un investigator grant di AIRC sia un finanziamento del Consiglio europeo della ricerca (ERC), un prestigioso consolidator grant da due milioni di euro. Dopo un periodo all'estero, è rientrato a tempo pieno presso la Struttura complessa di ematologia dell'ospedale e il Dipartimento di medicina dell'Università di Perugia, dove è professore associato. "Conoscevo e amavo l'attività clinica di mio padre, medico, e per questo mi sono iscritto a medicina pensando di studiare neurologia come lui, ma al quinto anno sono stato stregato dallo spessore scientifico e dal carisma dei maestri della Scuola ematologica di Perugia che venivano a farci lezione, Massimo Martelli e Brunangelo Falini".
La leucemia a cellule capellute (LCC) è una forma di leucemia cronica dovuta a una trasformazione neoplastica di linfociti B maturi, cioè delle cellule che producono anticorpi difendendoci dalle malattie infettive, e che può causare nel paziente infezioni anche mortali. Con i suoi 1.500 nuovi casi l'anno in Europa, è parte del gruppo delle malattie rare sulle quali è spesso difficile convogliare finanziamenti. Quello di Tiacci e del suo gruppo è uno dei più importanti progetti a livello mondiale dedicati a questa neoplasia. "In quel primo studio, che si rivelò decisivo nel determinare la causa della malattia e che fu reso possibile dal Programma AIRC di oncologia clinica molecolare del 5 per mille, mi è venuta l'idea di applicare tecniche di sequenziamento di nuova generazione per analizzare in un solo colpo tutti i 25.000 geni del genoma umano nelle cellule tumorali di un paziente. Il confronto con le cellule sane dello stesso paziente ci ha mostrato le decine di mutazioni presenti nelle cellule maligne. Bisognava a quel punto distinguere quelle innocue, passeggere, da quelle che davano la malattia".
Era come cercare un ago in un pagliaio, ma Tiacci notò tra i geni mutati proprio BRAF, che ben conosceva dai suoi studi in Germania. E così, senza attendere la rifinitura dell'algoritmo bioinformatico, "siamo partiti immediatamente con un metodo tradizionale (il sequenziamento convenzionale di un singolo gene per volta), concentrandoci sul gene BRAF, e lo abbiamo trovato incredibilmente mutato in tutti i pazienti che man mano analizzavamo". E proprio negli stessi giorni un nuovo farmaco, il vemurafenib, che inibisce specificamente il BRAF mutato, veniva sperimentato nei pazienti colpiti da melanoma. L'idea di provarlo nei pazienti con LCC è stata quindi immediata. Lo studio clinico, pubblicato nel 2015 sempre sul New England Journal of Medicine, ha mostrato una risposta clinica significativa in oltre il 90 per cento dei pazienti e una remissione completa in oltre un terzo di essi. "Intanto, grazie a un altro finanziamento AIRC, avevamo eseguito una serie di studi in vitro e dimostrato che, prelevando le cellule leucemiche da 26 pazienti ed esponendole al farmaco anti BRAF mutato, queste perdono le loro caratteristiche 'capellosità', diventando lisce, per poi morire". Al contrario, inducendo la mutazione di BRAF in cellule sane, queste diventano capellute e sopravvivono più a lungo di quelle senza mutazione, resistendo alla morte programmata. Questi risultati finirono sulla copertina della rivista Blood e aprirono la strada alla sperimentazione clinica del vemurafenib nei pazienti.
Il passo successivo, a ritmo stringente, è stato cercare di aumentare il numero di remissioni complete con l'impiego combinato dell'immunoterapia, abbinando cioè al vemurafenib un anticorpo monoclonale contro la molecola CD-20, il rituximab, che stimola il sistema immunitario a uccidere le cellule leucemiche. "Lo studio è in corso, ma stiamo già osservando un effetto di potenziamento anche oltre le nostre aspettative e, in alcuni pazienti, addirittura non vi è più traccia di malattia".
Un passo avanti decisivo, visto che parliamo di persone che non rispondono alle chemioterapie convenzionali o che non sono più in grado di affrontarle. "Per questo studio clinico ci siamo dovuti comprare noi autonomamente i farmaci (grazie ai fondi ERC), dato che questa malattia non rientra nelle strategie commerciali dell'azienda farmaceutica che li produce". La speranza è di riuscire a far approvare questo trattamento dalle agenzie del farmaco di tutti i Paesi: "I pazienti non avrebbero più bisogno di venire arruolati in un trial clinico per essere curati. Questo schema terapeutico potrebbe addirittura diventare di prima linea, come alternativo alla chemioterapia".
Ci sono voluti solo cinque anni per arrivare dalla scoperta della causa di una malattia a un farmaco che agisce proprio su di essa e, infine, alla cura.
"Per un medico ricercatore questa è un'enorme, impagabile soddisfazione" racconta Tiacci. Un processo dalla rapidità inusuale in medicina ma che testimonia come le promesse della ricerca traslazionale possano tradursi in realtà. "Qui c'è un terreno fertile per sviluppare idee e verificarle a tutti i livelli, dalle molecole che rileviamo nei gel in laboratorio, alle cellule maligne che vediamo al microscopio, ai pazienti che vengono in ambulatorio: un connubio unico, in gran parte merito del professor Falini".
Tiacci è il contro-esempio della cosiddetta "fuga dei cervelli". Durante la specializzazione, aveva trascorso sei mesi nel laboratorio di Riccardo Dalla Favera, presso la Columbia University a New York, e altri sei mesi allo IEO con Pier Giuseppe Pelicci. Poi il postdottorato a Essen e il rientro in Italia, inizialmente grazie a una borsa molto competitiva della European Hematology Association, il primo di una lunga serie di importanti finanziamenti ricevuti da AIRC, Ministero della salute e poi dall'università, Consiglio europeo della ricerca, Leukemia and Lymphoma Society, Hairy Cell Leukemia Foundation, oltre a vari premi nazionali e internazionali.
La ricerca non conosce orari e impegna la mente sette giorni su sette. "In Italia, siamo sempre più sopraffatti da complicate esigenze burocratiche e amministrative che non solo ci distolgono dalla ricerca ma la rendono oltremodo difficoltosa. Lavorare diventa complesso quando anche l'acquisto del materiale di laboratorio è un'impresa. Ci vorrebbero procedure più snelle, e invece le università vengono assurdamente costrette nella loro attività di ricerca a osservare le rigidissime e complicatissime regole burocratiche della pubblica amministrazione. La ricerca per sua natura è libera e il ricercatore, se vince un finanziamento, deve poter rapidamente reclutare nel suo team le persone che gli sembrano più adatte. Infatti verrà giudicato in base ai risultati che avrà ottenuto e pubblicato: se sono buoni, presenterà altri progetti e avrà altri finanziamenti, altrimenti no. È un meccanismo di autocontrollo molto semplice, ma l'Italia è l'unico Paese sviluppato dove non trova applicazione" dice con una certa verve. "Per di più dipendiamo interamente dai nostri grant: per fortuna ci sono AIRC e altre agenzie di finanziamento non statali".
Ma allora perché rientrare? È stata anche una scelta dettata dall'amore e dal desiderio di avere dei figli con la compagna Emanuela, anche lei ematologa ricercatrice, quindi ben consapevole che la ricerca non conosce orari e impegna sempre la mente. "A quattro anni dal matrimonio, celebrato nel 2006, ho scelto di tornare nella mia città e stare vicino a mia moglie. Poi sono nati due splendidi gemelli, Giovanni e Margherita, che sono molto uniti e hanno già interessi diversi" racconta. Ricerca e famiglia sono missioni coinvolgenti e impegnative: conciliarle è possibile, ammette, anche grazie al prezioso aiuto della tata e dei nonni. "Niente è più importante dei miei cari e i fine settimana li dedico anche a loro. In casa, poi, non parliamo quasi mai di lavoro. I gemelli amano viaggiare, non vedono l'ora di prendere l'aereo, e qualche volta mi accompagnano ai congressi a cui devo partecipare". Quanto al loro futuro, "saranno liberi di scegliere, come lo sono stato io. Se vorranno intraprendere la strada della ricerca, dirò loro che è appassionante forse come nessun altro lavoro, ma ci vuole molta tenacia, soprattutto in Italia. E anche fortuna, che però non è del tutto cieca: cogliere l'occasione quando passa è possibile solo se la mente è preparata".
Sul linfoma di Hodgkin, il più comune nei giovani adulti, si concentra un altro progetto di ricerca di Enrico Tiacci, sempre finanziato da AIRC attraverso il 5 per mille. Le lesioni genetiche di questa malattia sono conosciute solo in parte grazie a studi per lo più mirati a singoli geni. "Noi abbiamo condotto uno studio di tutti i 25.000 geni del genoma umano" spiega l'ematologo. Ma le cellule di questo linfoma sono rare e disperse in un mare di cellule normali, per cui è stato necessario un microscopio speciale al laser con cui catturare, una a una, 1.500 cellule tumorali da ciascuno dei 36 casi studiati, una metodica che Tiacci ha imparato a usare bene nel laboratorio di Ralf Kueppers durante il suo postdottorato. "Nell'85 per cento dei casi a essere mutato - anche se in punti diversi - è un insieme di reazioni a cascata legato al gene JAKSTAT, che stimola la proliferazione cellulare" racconta Tiacci, invitato a presentare questi dati al recente congresso internazionale sul linfoma di Hodgkin proprio dal suo ex capo Kueppers, anch'egli al lavoro sulla biologia dell'Hodgkin. Come nella leucemia a cellule capellute, i ricercatori perugini stanno lavorando per spegnere i meccanismi di resistenza alla morte, attivi all'interno della cellula linfomatosa e, contemporaneamente, a risvegliare il riconoscimento del tumore da parte del sistema immunitario.
Nicla Panciera