Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Dopo una lunga carriera nomade, Michele Maio approda nella città toscana per dirigere il primo centro italiano esclusivamente dedicato all'immunoterapia dei tumori. Qui oggi si sperimentano tutte le terapie innovative basate sul sistema immunitario, alcune per la prima volta al mondo.
Sulla porta dello studio da cui Michele Maio dirige il Centro di immunoterapia oncologica al Policlinico Santa Maria alle Scotte a Siena, un breve testo in napoletano accoglie il visitatore. È il famoso "facite ammuina": l'ordine per i marinai di fare una gran confusione per dare l'impressione di essere occupati in mansioni importanti, che secondo un'autoironica tradizione partenopea sarebbe "da usare in occasione di visite a bordo delle Alte Autorità del Regno".
Se oggi Maio si sente molto "newyorkese, friulano e senese", il marcato accento mette in chiaro che il legame con Napoli, dove è nato e cresciuto, non si è mai interrotto: in un certo senso, lui che da Napoli è partito, Napoli l'ha trovata anche in America, dove è sbarcato a 24 anni e mezzo con una borsa semestrale di AIRC, subito dopo la laurea con 110 e lode conseguita a tempo di record.
"Durante l'Università avevo legato con un gruppo di compagni molto determinati, e a un certo punto un paio di loro avevano ottenuto l'assegnazione della sede notarile, dopo gli studi in Legge, mentre io avevo la sensazione di essere in ritardo, anche se mi sono laureato in 5 anni e una sessione" racconta, appoggiato alla scrivania ingombra di instabili pile di fascicoli, su cui spicca il fonendoscopio, come a segnalare il forte legame tra ricerca di laboratorio e cura del malato, che ha rappresentato una costante nella sua vita, insieme alla voglia di girare il mondo.
Già prima di laurearsi, Maio aveva trascorso lunghi periodi all'estero, all'inizio degli anni ottanta: un mese a studiare genetica umana a Leida, in Olanda, poi ematologia a Cambridge, in Inghilterra, e immunologia a Monaco, in Germania. "Il mio professore all'Università di Napoli, l'immunologo Serafino Zappacosta, diceva: bisogna andare lì a imparare la tal cosa. E io ero sempre il primo ad alzare la mano" ricorda. Non aveva ancora del tutto chiaro che cosa avrebbe fatto dopo la laurea, ma nel dubbio la mano l'alzava.
Anche prima di optare per Medicina, sul finire del liceo classico aveva accarezzato per qualche tempo l'idea di iscriversi a Economia e commercio: "Alla fine prevalse l'immagine del medico di famiglia che, fin da quando ero ragazzino, veniva a casa e dopo essersi occupato di chi stava male restava a scambiare due chiacchiere davanti a un caffè". Il papà Antonio, ingegnere, stava lontano per lunghi periodi, in altre parti d'Italia ma anche in Sudamerica, e alle volte la mamma Crisanta partiva con lui: "Con le mie sorelle Giusi e Chiara abbiamo passato qualche periodo con la zia".
L'idea di allontanarsi da casa, insomma, faceva parte della normalità che Maio respirava fin da piccolo. Quando nel 1983, subito dopo la laurea, si presenta l'opportunità di andare al New York Medical College, diretto da uno scienziato che ha conosciuto in occasione di un seminario a Napoli, il passo è breve: "Sono stato fortunato perché all'arrivo ho subito legato con un gruppo di coetanei". Con alcuni compagni di laboratorio stabilisce presto la consuetudine di ospitarli a cena nel piccolo appartamento nel seminterrato di una villa, a due passi dal campus di Valhalla, poco a nord di New York, in cui vive da solo: "Io ho sempre amato cucinare, ma detesto lavare i piatti, che toccavano a loro".
La laurea italiana non gli consente di esercitare negli Stati Uniti, ma la competenza acquisita nell'uso di una tecnica di laboratorio gli permette di volare a Los Angeles - attraversando il continente - per sostenere un esame in un'agenzia federale. Ottiene così l'abilitazione a firmare referti per la valutazione della compatibilità dei pazienti destinati al trapianto di rene e midollo osseo. Assunto al Medical College, divide le sue giornate tra Valhalla e l'Istituto oncologico Sloan Kettering, dove ferve la ricerca sui linfociti T, negli stessi anni al centro della ricerca sulla nuova e temibile epidemia di AIDS.
"La borsa di AIRC è stato un viatico importantissimo, anche se nei primi tempi a New York ho vissuto con ben pochi mezzi" ricorda sorridendo. "In quegli anni ho fatto molto laboratorio ma anche molta ricerca clinica, in particolare sui tumori solidi come il melanoma. Lì ho cominciato a studiare l'immunoterapia, anche grazie al fatto che il New York Medical College era uno dei soli sette centri negli Stati Uniti autorizzati dalla Food and Drug Administration a studiare l'interleuchina 2, un mediatore cellulare prodotto dai linfociti T e che ha la funzione di regolare l'attività del sistema immunitario."
Al rientro in Italia è ancora AIRC che gli assegna il suo primo finanziamento per un progetto di ricerca, nel 1989. Ha già pubblicato su riviste di primissimo piano, da Lancet all'International Journal of Cancer, e alla prima specializzazione in ematologia alla Cattolica di Roma ha deciso di affiancare quella in oncologia, alla Federico II di Napoli: "L'ematologia era la specialità clinica più vicina agli studi di immunologia, e mi aveva appassionato fin dal secondo anno di Medicina, quando avevo cominciato a frequentare il reparto diretto da Felicetto Ferrara al Cardarelli".
Il suo primo laboratorio italiano non è però a Napoli, ma ottocento chilometri più a nord, al Centro di riferimento oncologico di Aviano, in provincia di Pordenone: "È stato un periodo molto interessante della mia vita, in cui ho mantenuto i contatti con gli Stati Uniti" ricorda. Proprio durante una visita a Valhalla per tenere un seminario, conosce Maresa Altomonte, una giovane nefrologa, anche lei napoletana.
Quella che a prima vista poteva essere scambiata per "ammuina" ("Tutti quelli che stanno a prua vadano a poppa, e quelli a poppa vadano a prua; quelli a dritta vadano a sinistra e quelli a sinistra vadano a dritta" e così via) si fa sempre più chiara: un colpo di fulmine tra di loro ma anche tra loro due e l'immunoterapia dei tumori, su cui cominciano a fare ricerca insieme, dapprima lavorando a distanza e poi, dopo due anni, entrambi ad Aviano. In Friuli nasce la figlia Giulia, che ha cinque anni quando a Maio viene offerta la direzione di un nuovo reparto di oncologia medica a Siena: "Il direttore generale mi chiese di quanti posti letto avessi bisogno e io, per mettere subito in chiaro le mie priorità, risposi che avevo bisogno del laboratorio, che per la mia attività era, è e sempre sarà cruciale, e che occorreva cambiare la logica che vedeva la ricerca come un accessorio" ricorda ora, seduto davanti alla finestra che offre una veduta dall'alto del centro storico, e della Torre del Mangia su Piazza del Campo. Alle pareti, le colorate immagini gioiose dell'artista americano Keith Haring, che ornano anche quelle del day hospital: "In America mi ero innamorato dei suoi calendari, che ho deciso di incorniciare per decorare questi ambienti".
A Siena, Michele Maio è arrivato nel 2004, con la figlia ma senza Maresa, che per circa un anno rimane, in attesa del trasferimento, ad Aviano, dove lui continuerà a coordinare l'attività fino al 2012: "Andando via ho concordato di mantenere una collaborazione assidua per aiutare il gruppo di ricerca a raggiungere la piena autonomia" spiega. Alcuni di quei ricercatori lo avevano infatti seguito a Siena: "Senza le persone giuste non vai da nessuna parte, e qui occorreva avviare tutto da zero" sottolinea. Inizialmente, nella città del Palio non riceve un'accoglienza calorosa ma la prospettiva di potersi focalizzare sullo sviluppo clinico dell'immunoterapia oncologica nel primo centro italiano dedicato specificamente a questo promettente approccio gli permette di superare tutto: "Era una scommessa assoluta, perché all'inizio la storia dell'immunoterapia dei tumori è stata costellata di insuccessi e molti ne contestavano addirittura la validità, ma io amo essere sotto pressione" spiega con un sorriso. "All'epoca, il 99 per cento dei casi era trattato con la chemioterapia, e appena l'1 per cento con l'immunoterapia."
Ora la scommessa ha cominciato a dare i suoi frutti: "Oggi il nostro è un gruppo di ricerca importante in termini di numeri, e molto competitivo a livello internazionale. Abbiamo una quarantina di trial clinici attivi in contemporanea, dalla fase 1 alla fase 3, e siamo ora attrezzati anche per gli studi detti 'first in human', che per la prima volta verificano nuove potenziali terapie su soggetti malati". Questo significa che nel centro di Siena molti malati che con le terapie standard avrebbero prospettive di sopravvivenza molto modeste possono talvolta trovare un protocollo adatto alla loro situazione: "In alcuni casi la sopravvivenza è passata dal 5 al 30 per cento, anche se è chiaro che non si può generalizzare" sottolinea Maio. "Anche per questo, il numero delle prime visite è cresciuto vertiginosamente, dalle 900 del 2015 alle 1.200 del 2016 fino alle 2.500 del 2017, per oltre due terzi da fuori regione. Alcuni pazienti vengono spontaneamente, altri sono indirizzati qui dal loro medico".
Ogni giorno, Maio risponde personalmente a decine di e-mail, spiegando che non è possibile fornire consulenza a distanza, e ogni giorno segue l'attività clinica facendo avanti e indietro dal day hospital, discutendo tutti i casi con i suoi collaboratori, e spesso visitando i pazienti insieme a loro: "Vedere il paziente può essere fondamentale, ma altrettanto importante è sapere che chi segue l'attività clinica è perfettamente in grado di lavorare in maniera affidabile, e di condividere con il team le informazioni più importanti."
Per mantenere un clima cordiale di collaborazione con tutto il gruppo di lavoro, composto da una cinquantina di persone, ogni anno organizza una grigliata nel giardino di casa, nella campagna senese. Forse è per questo che pur vivendo a Siena da molti anni, non è legato a nessuna contrada del Palio. Anzi, la domanda gli fa tornare in mente un episodio: "Ricordo che ci rimasi male quando arrivarono gli arredi per la sala d'attesa, ordinati da un mobilificio friulano che mi aveva fatto un ottimo prezzo per dei mobili di gran qualità, e due pazienti espressero il loro disappunto: il divano era bello e comodo, certo, ma i colori ricordavano quelli di non so che contrada rivale!".
Fabio Turone