Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Un sondaggio effettuato negli Stati Uniti ha rilevato che un paziente su tre fa ricorso a pratiche complementari come l’assunzione di integratori a base di erbe, lo yoga o l’agopuntura. Anche chi non abbandona la medicina scientifica è però a rischio, dicono i risultati di un altro studio condotto in oltre due milioni di pazienti: le terapie e le pratiche integrative possono interferire con i farmaci.
Supplementi a base di erbe, agopuntura, yoga e tecniche di rilassamento. Sono solo alcune pratiche di quelle che vengono a volte incluse in quella categoria ampia e mal definita che è la cosiddetta medicina complementare (MC). Molti pazienti che ricevono diagnosi di tumore spesso fanno ricorso a tali pratiche per alleviare i sintomi di malattia e terapie. I risultati di un sondaggio condotto negli Stati Uniti in circa 3.000 pazienti con storia di tumore mettono in luce che un paziente su tre tra quelli coinvolti nello studio aveva fatto uso di queste strategie alternative nell’ultimo anno. Tra le più utilizzate, i supplementi a base di erbe (35,8 per cento), le manipolazioni osteopatiche o chiropratiche (25,4 per cento), il massaggio (14,1 per cento), attività fisiche come yoga, tai chi e qigong (7,6 per cento), ma anche tecniche di meditazione (6,9 per cento), diete speciali (2,9 per cento) e agopuntura (2 per cento). Gli autori del sondaggio, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati su JAMA Oncology, sottolineano però che meno del 30 per cento di coloro che hanno fatto uso di pratiche complementari ne aveva parlato con il proprio medico o con l’oncologo.
Non è quasi mai solo un caso o una dimenticanza. Molti pazienti non dicono al proprio medico dei trattamenti e delle pratiche complementari per ragioni legate sia a fattori culturali sia all’atteggiamento del medico stesso. Secondo lo studio statunitense, oltre la metà dei pazienti (57,4 per cento) non riferisce di ricorrervi perché il medico non fa domande in proposito, mentre il 47,4 per cento è convinto che non sia poi così importante che l’oncologo ne venga messo al corrente. Seppure meno numerosi, ci sono anche pazienti che non ritengono lo specialista abbastanza ferrato sul tema (8,5 per cento) o che dicono di non avere avuto il tempo necessario per discuterne (5,7 per cento), mentre in alcuni casi sono preoccupati della possibile reazione negativa del medico (3,9 per cento) o temono che venga loro consigliato di abbandonare queste scelte complementari o alternative (3,6 per cento).
Le terapie non convenzionali (cioè diverse da chirurgia, chemioterapia e radioterapia) vengono usate sia come integrazione ai trattamenti convenzionali sia in alternativa (ovvero in sostituzione dei trattamenti convenzionali). Nel secondo caso il rischio per il malato è molto elevato, poiché si sostituiscono cure di provata efficacia con rimedi palliativi o addirittura inefficaci.
Ma anche le pratiche complementari, cui in teoria bisognerebbe ricorrere solo in aggiunta alle cure di efficacia scientificamente dimostrata, non sono prive di rischi. Lo dimostrano i risultati di uno studio pubblicati nel 2018 sempre dalla rivista JAMA Oncology, che ha esaminato il destino di quasi due milioni di pazienti oncologici negli Stati Uniti: fra coloro che hanno fatto ricorso alle pratiche complementari, è stato più frequente lo sviluppo di un rifiuto per le cure di provata efficacia e ed è stato riscontrato un rischio doppio di morire rispetto a chi non vi ha fatto ricorso. Gli autori ipotizzano che ciò possa dipendere da una scarsa adesione alle cure convenzionali, perché la pratica complementare offre una sensazione illusoria di presa in carico del problema di salute.
“Servono politiche mirate e linee guida che incoraggino la discussione sulle pratiche complementari e alternative nell’ambito dell’oncologia” scrivono nelle loro conclusioni gli autori del sondaggio. In effetti il dialogo fra medico e paziente non può essere trascurato, soprattutto perché molti degli interventi basati sulle pratiche complementari, e ancor più su quelle alternative, possono influenzare l’esito delle terapie convenzionali e il decorso della malattia, e possono avere in un paziente effetti anche molto diversi da quelli che si osservano nelle persone sane. L’esempio più classico è legato all’uso di supplementi a base di erbe, molto spesso ritenuti innocui perché percepiti come “naturali”. Ebbene, numerosi studi hanno dimostrato che i principi attivi presenti in alcune piante possono ostacolare i trattamenti chemioterapici: è il caso degli antiossidanti, che possono interferire con ciclofosfamide e doxorubicina, o del succo di pompelmo, dell’erba di San Giovanni e del ginkgo, capaci di modificare l’efficacia delle terapie attraverso diversi meccanismi. Persino lo yoga può essere pericoloso se praticato senza un supervisore esperto da un paziente con metastasi ossee, quindi a rischio di fratture spontanee.
In conclusione quindi, meglio evitare il fai da te quando si tratta di terapie contro il cancro: il dialogo con il medico resta un momento fondamentale per decidere quali strategie mettere in campo, anche se si tratta di “aiuti” non farmacologici come per esempio un bel massaggio o una tisana.
Agenzia ZOE