Ultimo aggiornamento: 11 novembre 2020
Senza pazienti non si possono fare studi clinici, senza studi clinici le conoscenze sulle malattie e le terapie non fanno passi avanti. Per questo è importante capire cosa può favorire o scoraggiare la partecipazione dei pazienti.
Un gruppo di ricercatori americani ha mostrato in uno studio che almeno la metà dei pazienti con il cancro a cui viene offerta la possibilità di entrare a una sperimentazione clinica è disponibile a partecipare. Tuttavia, al di là della volontà dei pazienti, meno di un paziente oncologico su dieci è di fatto coinvolto in studi clinici. Quali sono le ragioni di chi rifiuta? E perché l’opportunità è offerta solo a una minoranza dei casi?
Uno studio clinico è un esperimento progettato e condotto in modo rigoroso in cui si valuta l’efficacia di un intervento per la diagnosi o la cura di una malattia. Le fondamenta degli studi clinici sono le ricerche di laboratorio: la scoperta di un meccanismo o di una molecola che hanno un ruolo nell’insorgenza e nell’evoluzione della malattia suggerisce possibili strategie diagnostiche e terapeutiche. Queste strategie vengono inizialmente sperimentate in cellule in coltura e con animali di laboratorio. Se questi studi preclinici danno risultati solidi e promettenti, si procede con la sperimentazione clinica, composta da quattro fasi:
Gli studi clinici vanno progettati con attenzione, in modo che i risultati diano risposte affidabili. Innanzitutto, vengono stabiliti i criteri di inclusione dei volontari: ogni studio coinvolge solo pazienti con caratteristiche precise, per esempio pazienti con un tumore di un certo tipo in un certo stadio. Possono essere stabiliti anche dei criteri di esclusione, per cui non sono ammessi a partecipare i pazienti con certe caratteristiche, per esempio quelli che hanno già ricevuto altri farmaci. Se il nuovo trattamento viene confrontato con uno già esistente o con una sostanza inattiva (placebo), si parla di studio clinico controllato. Gli studi più rigorosi prevedono che i partecipanti siano assegnati in modo casuale (in inglese, random) al gruppo trattato con il farmaco sperimentale o al gruppo di controllo o placebo: in questo caso si chiamano studi randomizzati controllati (RCT, dall’inglese “randomized controlled trial”). Per evitare il rischio che la lettura dei risultati sia influenzata dal desiderio che il trattamento funzioni, lo studio può essere condotto in singolo cieco (il paziente non sa a quale gruppo sperimentale è assegnato), in doppio cieco (né il paziente né il medico hanno questa informazione, custodita da garanti esterni alla sperimentazione) o in triplo cieco (neppure il personale incaricato di analizzare i dati conosce queste informazioni).
Prima di poter iniziare uno studio clinico, gli sperimentatori devono preparare un protocollo dettagliato che descriva quanti pazienti verranno arruolati, i criteri di inclusione ed esclusione, le modalità di trattamento e quali risultati verranno valutati. Il protocollo è esaminato da un comitato etico che accerta che la sperimentazione sia ben progettata, che i pazienti siano tutelati e che sussistano le condizioni per procedere. Vengono quindi preparati i moduli per il consenso informato e la parola passa al paziente.
Nell’articolo citato in apertura, pubblicato sulla rivista del National Cancer Institute, i ricercatori hanno preso in esame diverse indagini sulla partecipazione agli studi clinici fatte negli ultimi vent’anni. L’analisi d'insieme (metanalisi) di 35 articoli scientifici che riguardavano più di 9.500 pazienti ha mostrato che il 55 per cento degli interessati aveva acconsentito a partecipare. Tra chi aveva negato il consenso, un paziente su cinque dichiarava di non essere interessato, mentre un paziente su quattro desiderava poter scegliere il trattamento a cui sarebbe stato sottoposto. Altri motivi per il rifiuto erano la paura di eventuali effetti collaterali, l’avversione all’idea di partecipare a un esperimento e problemi con l’assicurazione medica. Quest’ultima motivazione vale prevalentemente negli Stati Uniti, dove, fra le altre cose, manca un servizio sanitario nazionale con copertura universale. Non è invece una ragione di rifiuto comune in Europa, dove le norme impongono a ogni studio clinico, per essere autorizzato, la stipula di un’assicurazione a tutela di ciascun partecipante.
I dati raccolti offrono alcuni spunti per aumentare l’adesione. Per esempio, specialmente nei Paesi in cui l’assistenza medica non è universale, si potrebbe fare in modo che l’assicurazione sia sempre tenuta a coprire le spese legate alla partecipazione agli studi clinici.
Gli sperimentatori dovrebbero poi migliorare la comunicazione col paziente, in modo da presentare più chiaramente i possibili vantaggi della partecipazione allo studio fugando i timori più comuni. Partecipare a uno studio clinico può infatti significare avere accesso a cure innovative ed essere sottoposti regolarmente a visite ed esami, oltre che contribuire personalmente al progresso della scienza.
Bisogna lavorare di più anche sul materiale informativo che viene consegnato al paziente. Durante l’ultimo congresso mondiale sul cancro del polmone, Anne-Marie Baird, ricercatrice presso il Trinity College di Dublino, si è espressa in questi termini: “Penso che gran parte dello sforzo che viene fatto si concentri sullo sviluppo del protocollo dello studio clinico. Ciò è importante e critico, ma qualche volta bisogna fare un passo indietro, perché le informazioni che vengono date al paziente nel momento in cui deve essere arruolato nello studio rappresentano una grossa barriera. Quelle informazioni sono molto difficili da comprendere: anche se si presume che siano scritte in parole semplici, non lo sono, e quindi il paziente si rifiuta di partecipare. Se si investisse tempo nell’aiutare i pazienti a comprendere gli studi clinici, aumenterebbe il numero di chi vuole partecipare”.
Anche se tutti i pazienti rispondessero positivamente, il numero di partecipanti rimarrebbe comunque basso. Si stima che solo l’8 per cento dei pazienti con tumore riesca a partecipare a uno studio clinico.
Le cause sono diverse, principalmente di natura infrastrutturale e clinica. Non tutti gli istituti possono infatti investire le risorse necessarie alla gestione della sperimentazione clinica, perciò in alcuni casi per parteciparvi il paziente si dovrebbe spostare, con costi e sacrifici non sempre sostenibili. Tante volte per i medici stessi è difficile sapere quali studi sono stati avviati, dove e a chi sono destinati.
C’è poi un problema di criteri di inclusione: spesso il paziente non coincide esattamente con il profilo del candidato alla sperimentazione descritto nel protocollo, magari perché ha altre malattie concomitanti.
Complessivamente questi impedimenti fanno sì che a tre pazienti su quattro fra quelli disponibili non sia data la possibilità di partecipare a uno studio clinico. Lavorare per abbattere queste barriere significherebbe non solo accelerare la sperimentazione velocizzando il reclutamento dei partecipanti, ma soprattutto ridurre alcune disuguaglianze in fatto di salute pubblica.
Agenzia Zoe