Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Oncoematologo pediatra, Locatelli ama il proprio lavoro: non mancano i momenti duri e tristi, ma anche i grandi successi, come quello ottenuto con le cellule CAR-T, la nuova immunoterapia che promette di cambiare la vita dei piccoli pazienti.
Franco Locatelli esprime tutto il suo amore per il mestiere che si è scelto quando parla di ricerca sul cancro e dei suoi piccoli pazienti nel suo ufficio all’Ospedale Bambino Gesù di Roma, dove ricopre il ruolo di responsabile del Dipartimento di oncoematologia e terapia cellulare e genica: “Iniziare a occuparmi di oncoematologia è equivalso a iniziare a provare emozioni umane fortissime e impagabili” dice con un sorriso. “E poi non riesci più a smettere.”
È proprio il sorriso bonario che trasmette amore e passione per il proprio lavoro a togliere a quell'immagine forte ogni riferimento alla sofferenza e alla perdita di controllo, e a caricarla invece di un’intensità molto produttiva, rivolta al bene dei suoi piccoli pazienti: “Quello che ricevo in termini di gratificazione umana è molto superiore a quello che, con tutto l’impegno professionale, riesco a dare”. Di sicuro, quello che riesce a dare con le sue capacità di clinico e ricercatore all'avanguardia è davvero molto.
Fin da piccolissimo, a Bergamo, ha fatto i conti con il giuramento d’Ippocrate, che il papà Santo – medico e pediatra di famiglia – interpretava in maniera davvero missionaria: “Usciva tutte le mattine alle sette per rientrare la sera alle nove. Al tempo non c’era nemmeno la guardia medica, per cui era impegnato anche una domenica su due” racconta. La mamma Ersilia, ostetrica, aveva già 39 anni quando è nato, a dodici anni di distanza dalla sorella Roberta, e aiutava il marito nella gestione delle chiamate per le visite domiciliari.
Fu lo zio Giuseppe, insegnante nelle scuole elementari di Lovere, sul lago d’Iseo, a ideare una soluzione che avrebbe segnato e arricchito la sua infanzia, proponendo di prenderlo con sé: “Lo zio Giuseppe e la zia Luisa non avevano figli, ed è stato così che io ho avuto la fortuna di avere quattro genitori, perché la domenica ci vedevamo con mamma e papà a Lovere o a Bergamo, dove andavo con il pullman”.
A Lovere, che a dispetto dei 5.000 abitanti è un paese molto attivo e ricco di attività culturali, con l’Accademia di Belle Arti e un’apprezzata stagione concertistica, sceglie di rimanere ben oltre la fine delle elementari, come era stato previsto inizialmente. Colleziona ottimi voti alle medie e poi al liceo scientifico, mentre coltiva anche la passione per i funghi e dedica il tempo libero al tennis e al calcio, con un amore per i colori nerazzurri che nasce con l’Inter ma poi diventa al cento per cento atalantino.
Con l’avvicinarsi dell’esame di maturità, riflette sulla possibilità di iscriversi a fisica, ma poi opta per medicina (“Ben sapendo che con la mia poca manualità non avrei potuto fare il chirurgo” spiega divertito). Tra Brescia, non lontana, dove ha appena aperto una nuova Facoltà di medicina, e Milano, la scelta cade su Pavia: “I miei genitori temevano che la grande città fosse dispersiva, e la novità di Brescia non offriva ancora sufficienti garanzie. A Pavia concordammo che non sarei andato in uno dei collegi ma avrei convissuto in un appartamento con altri ragazzi” racconta Locatelli. “Trovai un ambiente ideale, perché c’è molta attenzione per i bisogni degli studenti.”
Locatelli stava frequentando l’ultimo anno di medicina quando conobbe Roberto Burgio, uno dei padri nobili della pediatria italiana, che dirigeva la clinica pediatrica dell’Università di Pavia: “Era un uomo di una cultura stratosferica, che univa acume clinico e una grande propensione alla ricerca scientifica”.
Dopo la laurea con lode, con una tesi in patologia neonatale, ottiene una borsa per occuparsi di bambini con tumore, nel reparto di oncoematologia pediatrica: “Con il pensionamento di Burgio, nel 1989, ci furono un po’ di cambiamenti, che per me significarono un colpo di fortuna perché a dirigere la clinica pediatrica fu chiamata una gran signora, prima ancora che un’eccellente accademica: l’endocrinologa pediatrica Francesca Severi, una delle pochissime donne in quegli anni a ricoprire una cattedra di professore ordinario”.
Nel febbraio del 1990, dopo la specializzazione in pediatria, riesce ad andare a Londra come borsista all'Hammersmith Hospital, dove lavoravano alcuni tra i massimi esperti al mondo di malattie ematologiche, tra cui il suo mentore John Barrett, specialista di leucemie acute.
Al ritorno a Pavia, quando oramai è alla simbolica soglia dei trent’anni e non ha un contratto di lavoro, inizia la specializzazione in ematologia, nel Reparto di oncoematologia, grazie all’incontro con Piero De Stefano, ematologo pediatra con grande esperienza nel campo della talassemia. Anche la professoressa Severi apprezza il suo lavoro e, quando l’anno successivo gli Ospedali Riuniti di Bergamo gli offrono l’assunzione, si spende per trattenerlo, con la prospettiva della carriera universitaria. Il posto di ricercatore arriva sul finire del 1991, quando Locatelli assume anche il ruolo di coordinatore dell’Unità per il trapianto di midollo osseo. È in quel periodo che riceve anche il primo finanziamento di AIRC.
Ed è in quegli anni che conosce Luigia, insegnante elementare che si occupa dei bambini ricoverati, assistendoli non solo per le lezioni e i compiti scolastici, ma anche con un supporto psicologico continuo: “In quegli anni il ruolo educativo era quasi in secondo piano rispetto a quello psicoaffettivo, sia per i bimbi, sia per i genitori” racconta Locatelli. “C’era un appuntamento fisso ogni settimana, al giovedì pomeriggio, in cui si mangiava la pizza preparata dai bambini. Una volta, con l’aiuto di una mamma che aveva una sartoria, prepararono una sfilata di moda, che si svolse nella monumentale Aula del ‘400 dell’Università. Ora Luigia continua a seguire i piccoli ricoverati del Bambino Gesù, ma può farlo in un contesto molto più organizzato, con il supporto di specialisti psicologi e mediatori culturali per tutti i bambini che arrivano anche dall’estero.”
All’Ospedale del Papa – come si chiama oggi il grande policlinico pediatrico cresciuto sul colle romano del Gianicolo attorno all’antico convento di Sant’Onofrio, che nel 2019 compirà 150 anni – la coppia è approdata nel 2010, quando a Locatelli è stato offerto di dirigere il Dipartimento di oncoematologia pediatrica e medicina trasfusionale. A Pavia aveva ottenuto la cattedra di pediatria, ma scalpitava sia come clinico sia come ricercatore perché non riusciva a ottenere né la ristrutturazione del reparto, oramai vetusto, né il completamento del programma per la creazione di una “cell factory”, o officina farmaceutica, necessaria a portare avanti le ricerche di avanguardia che gli stavano a cuore: “Cercavo un posto che avesse voglia di investire nella cura con respiro anche scientifico” sintetizza con semplicità.
La “grande bellezza” di Roma lo ha lasciato a bocca aperta: “È una città di una bellezza quasi imbarazzante. Fra l’altro io ho avuto un colpo di fortuna eccezionale trovando un appartamento stupendo davanti al Colosseo”.
Né il Colosseo né le bellezze della Città Eterna possono reggere il confronto con la nuova immunoterapia CAR-T messa a punto grazie all’officina farmaceutica del Bambino Gesù, e grazie ai fondi assicurati da AIRC e dal ministero della Salute: una nuova terapia che ha permesso di curare un bambino di 4 anni colpito da leucemia linfoblastica acuta che aveva già avuto due ricadute, dopo la chemioterapia e ancora dopo il trapianto di midollo osseo da donatore. E mentre la maggior parte delle terapie CAR-T presenti sul mercato dipende da case farmaceutiche, la sfida di Locatelli sta nello sviluppare la tecnica in ospedale, in modo che possa essere eseguita in ogni centro specializzato, riducendo i costi.
La CAR-T impiega alcune cellule del sistema immunitario del bambino malato, i linfociti T, che con un preciso intervento di modifica genetica diventano capaci – una volta reinfusi nel paziente di riconoscere, attaccare e distruggere le cellule tumorali nel sangue e nel midollo. “Per questo bambino non erano più disponibili altre terapie, e qualsiasi altro trattamento chemioterapico avrebbe avuto solo un’efficacia transitoria o addirittura un valore palliativo. Grazie all'infusione dei linfociti T modificati, invece, oggi sta bene ed è stato dimesso” spiega Locatelli. “Questo non vuol dire che sia una scelta da fare a cuor leggero, perché si tratta pur sempre di una cura sperimentale: la nostra politica prevede di spiegare tutti i dettagli ai genitori, e di lasciare loro sempre un paio di giorni prima di dare il consenso alla sperimentazione, in modo da pensarci per quanto possibile con calma e tornare magari con qualche domanda. Non permettiamo mai di firmare subito.”
Oggi la sua vita è scandita da ritmi simili a quelli che aveva suo padre, con sveglia tutti i giorni alle 6:30 del mattino e alcune settimane in cui, tra un convegno e un meeting, si ritrova a dormire in quattro letti diversi. Forse è per questo che le vacanze sono stanziali, al mare della Sardegna, dove nel tempo libero si dedica alla lettura, al cinema e a incontrare gli amici.
La sosta gli permette di reimmergersi nel lavoro di medico e ricercatore, alla ricerca di nuove gioie ma con la consapevolezza che l’oncologia pediatrica può riservare anche intensi dolori quando l’impegno profuso non dà i risultati sperati: “Nel tempo ho acquisito la percezione sempre più chiara del fatto che quando perdi un paziente segni anche il destino di una famiglia. Purtroppo, nel nostro mestiere, il più bravo è quello che sbaglia di meno, e superare la morte di un paziente è possibile solo perché diventa stimolo a fare di più per evitare che succeda di nuovo”.
Il sistema immunitario è in grado di combattere il tumore dall’interno, se opportunamente stimolato. È questa la base dell’immunoterapia del cancro, che può essere attuata con diverse tecniche. Si possono usare farmaci, in particolare anticorpi, che, iniettati nel paziente, rimuovono il freno alle cellule del sistema immunitario. È però anche possibile agire direttamente sulle cellule immunitarie con tecniche di manipolazione del DNA che le rendono più efficaci nella lotta. È questa l’idea alla base della CART: attraverso la terapia genica si introducono frammenti di DNA all’interno dei linfociti del malato in modo che le cellule mutate possano riconoscere il tumore. I linfociti vengono prelevati dal paziente, geneticamente modificati e poi reinfusi nel malato. Il sistema è stato sperimentato per la prima volta con successo all’Università della Pennsylvania a Filadelfi a nel 2012 su una bambina di 7 anni con leucemia linfoblastica acuta. La stessa terapia è stata usata per la prima volta nel 2016 su un bambino curato all’Ospedale San Gerardo di Monza e ora perfezionata dal gruppo di Locatelli all’Ospedale Bambino Gesù di Roma.
Fabio Turone