Ultimo aggiornamento: 6 dicembre 2021
Ad alcuni oncologi è stato chiesto quali farmaci antitumorali porterebbero con sé su un’ipotetica isola deserta in cui esercitare la loro professione. La selezione ha incluso soprattutto farmaci di comprovata utilità piuttosto che preparati più recenti o sperimentali.
Le nuove terapie oncologiche sono accolte sempre con molto entusiasmo, ma ciò non deve far pensare che i farmaci in uso da più tempo abbiano perso importanza. Un regime terapeutico a base di farmaci messi a punto decenni fa non è necessariamente una cura di serie B rispetto all’ultimo anticorpo monoclonale o altro ritrovato innovativo approvato per l’uso. È compito dei medici decidere quale trattamento abbia maggiori probabilità di successo per un dato paziente, prendendo in considerazione tutte le “armi” a disposizione. E in effetti gli oncologi hanno ben presente il valore di farmaci che si possono considerare “storici”, come dimostra il cosiddetto “Desert Island Project” (in italiano “Progetto isola deserta”).
La cosiddetta “Essential Medicines List” dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) include i farmaci considerati più importanti e prioritari per garantire la salute pubblica. Un gruppo di ricercatori si è tuttavia domandato se i numerosi farmaci oncologici elencati in tale lista siano allineati con i farmaci che gli oncologi in diverse parti del mondo considerano davvero essenziali: quelli di cui, potendo, non farebbero mai a meno. È nato così il “Desert Island Project”, un sondaggio che ha coinvolto quasi mille oncologi di più di 80 nazioni. Il nome del progetto deriva dal fatto che ai partecipanti è stato chiesto di immaginarsi a svolgere il proprio mestiere su un’isola deserta, con a disposizione solo 10 farmaci antitumorali. Lo scenario dell’isola era uno stratagemma utile affinché i medici facessero fare mente locale su quali farmaci sono i più indispensabili, fingendo per un attimo che non siano altrettanto necessari gli esami specialistici, le strutture e le condizioni adeguate a scegliere e somministrare il trattamento e a gestirne gli effetti.
I ricercatori hanno redatto così una lista dei venti farmaci più citati nei risultati del sondaggio. Analizzando a uno a uno questi farmaci, hanno trovato che circa il 60 per cento apparteneva al gruppo dei composti citotossici (molecole come il cisplatino, che impediscono la moltiplicazione o la crescita delle cellule tumorali), mentre per il 20 per cento erano prodotti ormonali (molecole come il tamoxifene, che contrastano l’effetto di alcuni ormoni in grado di favorire la crescita del tumore). Si tratta anche di cure in uso da molto tempo: dei farmaci presenti nella lista, due su tre sono stati approvati dalle agenzie regolatorie oltre venti anni fa.
Uno dei presupposti del sondaggio era di ignorare gli aspetti economici: nella scelta dei farmaci gli oncologi non avrebbero dovuto considerare i costi, dato che sull’ipotetica isola deserta il denaro non sarebbe stato un problema. Nella realtà purtroppo le cose vanno diversamente. Infatti, se si chiede a un medico se nella nazione dove lavora quei farmaci possono essere offerti a tutti i pazienti che ne hanno bisogno, la risposta è negativa. Ogni farmaco della lista è infatti accessibile a una percentuale di pazienti compresa tra il 10 e il 50 per cento circa nei Paesi a basso reddito (come l’India e il Camerun) e dal 20 al 90 per cento nei Paesi a medio reddito (come la Russia e il Brasile). La situazione è migliore per i Paesi ad alto reddito, categoria in cui rientra l’Italia; tuttavia, anche in questi Paesi non si arriva al 100 per cento, ma ci si attesta tra il 70 e il 94 per cento. Pensare che anche nei paesi più benestanti almeno il 6 per cento della popolazione non ha accesso a farmaci di vecchia generazione, in genere i più economici, fa intuire i ben maggiori problemi di sostenibilità delle terapie più innovative e dispendiose.
I risultati del “Desert Island Project” non devono creare diffidenza nei confronti delle terapie più recenti o spingere necessariamente verso una medicina della “decrescita felice”. Il fatto che i farmaci sviluppati negli ultimi anni non rientrino tra le terapie antitumorali ritenute più essenziali dalla maggior parte degli oncologi che opera sul campo in moltissimi Paesi nel mondo non vuol dire che essi siano poco affidabili. Semplicemente può volere dire che nella maggior parte dei Paesi non sono usati perché non sono disponibili. O che, essendo i composti più innovativi in genere più mirati e specifici per sottogruppi di pazienti, non rispondono necessariamente alla domanda: “Che cosa ti porteresti dietro per curare il maggior numero di persone”.
Le ricerche di frontiera puntano a individuare trattamenti che diano una chance a chi non risponde alle cure standard. Di conseguenza, i nuovi farmaci spesso ottengono buoni risultati solo in una piccola frazione di malati che presentano precise caratteristiche. Ma una terapia che prolunga la sopravvivenza solo nei pazienti portatori di una particolare mutazione genetica non finirà mai nella “top ten” dei farmaci essenziali, anche se farà una grande differenza per quel piccolo gruppo di malati. Come conferma l’OMS, per soddisfare le esigenze sanitarie di Paesi a diverso reddito sono necessari ambedue gli approcci. Servono farmaci efficaci e a basso costo, facili da reperire anche nei Paesi più poveri e meno attrezzati. E occorrono anche farmaci mirati a particolari bersagli, per curare gruppi più specifici di pazienti in Paesi dove le cure di base sono già garantite a tutti i cittadini e dove l’infrastruttura sanitaria consente le indagini diagnostiche e molecolari necessarie all’approccio più recente.
Agenzia ZOE