Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Cambiano le regole per la prescrizione della vitamina D in Italia. Quali sono gli effetti di questo composto sulla salute?
L’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha recentemente pubblicato la Nota 96, che modifica le regole per la prescrizione di vitamina D (e per la precisione della sua forma D3, o colecalciferolo). Il documento prevede che la prescrizione a carico del Sistema sanitario nazionale (SSN) dei farmaci per la “prevenzione e trattamento della carenza di vitamina D” sia limitata ad alcune categorie specifiche, per esempio alle persone che vivono in case di riposo o istituti, alle donne in gravidanza o in allattamento e alle persone con osteoporosi. Solo per loro il composto può essere prescritto a carico del SSN indipendentemente dai livelli della sostanza nel sangue. La pubblicazione di questa nota ha riacceso la discussione, in realtà mai del tutto spenta, sull’uso dei supplementi di vitamina D, spesso assunto anche quando non necessario e al quale sono state attribuite proprietà preventive non sempre dimostrate.
Anche se in molti casi la carenza di vitamina D non porta con sé sintomi gravi, livelli adeguati di questo composto nel nostro organismo sono necessari per la salute delle ossa, dei nervi, dei muscoli e del sistema immunitario. Nella forma attiva, chiamata calcitriolo, la vitamina D stimola infatti l’assorbimento di calcio e fosforo, che mantengono le ossa forti e le proteggono dalla perdita di mineralizzazione tipica dell'età avanzata, oltre a prevenire malattie un tempo molto frequenti come il rachitismo.
La ricerca ha inoltre dimostrato che la vitamina D è coinvolta in numerose altre funzioni di cellule, tessuti e organi, garantendo per esempio una corretta contrazione dei muscoli o influenzando il sistema immunitario. In Italia, viene considerato normale un livello di vitamina D – o meglio di 25(OH)D, la forma che si misura con gli esami del sangue – compreso tra 20 e 40 ng/mL. Sotto i 20 ng/mL, invece, è opportuno prevedere delle strategie per contrastare la carenza.
I primi studi storici sugli effetti clinici della vitamina D hanno permesso di valutare la relazione tra i suoi livelli e l’insorgenza di numerose patologie, incluse quelle cardiovascolari e i tumori. I dati disponibili non sono però sufficienti per raccomandarne l’assunzione a scopo preventivo.
In particolare per quel che riguarda il legame tra tumori e vitamina D, il quadro risulta molto complesso, come spiega un recente articolo pubblicato sulla rivista Epidemiologic Reviews che fa il punto della situazione.
Le prime sperimentazioni avevano acceso l’entusiasmo sulla potenziale efficacia della vitamina D nella lotta contro i tumori, ma gli effetti osservati in laboratorio non hanno trovato in genere conferme nei pazienti. Inoltre le numerose ricerche svolte sul tema hanno dato risposte tra loro contrastanti a seconda del tipo di tumore (ma talvolta anche per lo stesso tipo di tumore), spesso per via di differenze nelle modalità di raccolta dei dati e nel disegno degli studi. La difficoltà di giungere a una conclusione univoca riguarda sia gli studi che valutano il ruolo della vitamina D nella prevenzione dei tumori, sia quelli che cercano di capire se la sua presenza (o assenza) influenza la sopravvivenza dei malati.
A differenza di quanto accade per la maggior parte delle vitamine, la fonte principale di vitamina D non è il cibo ma il sole, in particolare i raggi UVB che stimolano la produzione della molecola da parte dell’organismo. L’esposizione al sole rappresenta quindi il modo migliore per raggiungere i livelli desiderabili di vitamina D, sempre tenendo conto del fatto che la sua produzione è influenzata da molti fattori, come l’ora, la durata e la stagione di esposizione, l’età e il colore della pelle della persona, l’uso di creme solari.
Una soluzione alternativa è integrare la vitamina D usando dei farmaci, oggi disponibili in forma di soluzioni o anche pastiglie. Come si legge in un articolo pubblicato sul Bollettino epidemiologico nazionale, negli ultimi anni si è assistito a un incremento notevole del consumo di vitamina D in Italia, con una spesa passata dai 24 milioni di euro del 2006 ai 208 milioni del 2016. L’incremento non sembra essere giustificato da evidenze scientifiche concordi.
Tuttavia occorre anche considerare in quali popolazioni sono effettuati gli studi: vi sono infatti nazioni, come per esempio gli Stati Uniti, il Canada e alcuni Paesi scandinavi, in cui alcuni alimenti molto diffusi come il latte sono rafforzati da molti decenni con vitamina D, per scongiurare il rachitismo soprattutto dove l’esposizione al sole è limitata. Le popolazioni dei Paesi in cui non sono comuni gli alimenti rafforzati di vitamina D potrebbero mostrare livelli medi diversi di questa sostanza.
La recente nota dell’AIFA potrebbe avere un effetto sui consumi, quanto meno su quelli sostenuti dal Sistema sanitario nazionale. Tuttavia sarebbe importante sia migliorare l’informazione sul tema, sia approfondire gli studi di popolazione, al fine di riservare il ricorso all’integrazione solo in caso esso sia giustificato da una vera e propria carenza.
La Società italiana di nutrizione umana (SINU) stabilisce il fabbisogno medio giornaliero di vitamina D pari a 10 microgrammi (400 unità internazionali, UI), indipendentemente dall’età, anche se poi i fabbisogni reali devono essere valutati caso per caso, soprattutto in presenza di patologie o condizioni di salute particolari.
Come riportato in uno studio i cui risultati sono stati pubblicati sull’Italian Journal of Pediatrics, ai primi posti nella classifica degli alimenti più ricchi di vitamina D ci sono alcuni pesci come dentice, merluzzo, orata, palombo, sogliola, trota, salmone e aringhe (300-1500 UI/100 g), seguiti dall’olio di fegato di merluzzo (400 UI/5ml ovvero l’equivalente di 1 cucchiaino da tè) e da altri alimenti di origine animale come la carne di maiale, il fegato di manzo (40-50 UI/100 g) e il burro (30 UI/100 grammi).
Agenzia Zoe