Ultimo aggiornamento: 21 novembre 2024
Sottovalutata dal pubblico rispetto all’uso di bisturi e medicinali, contribuisce invece spesso al successo degli altri approcci terapeutici, quando addirittura non arriva a sostituirli
Interventi chirurgici strabilianti e farmaci sempre più innovativi si guadagnano spesso i titoli dei giornali, mentre la radioterapia resta in ombra, quasi fosse un approccio alla cura del cancro di serie B. Pochi sanno che è ormai fondamentale in un caso di tumore su due e che ogni anno più di 180.000 nuovi pazienti solo in Italia ricevono questo trattamento, un numero destinato a salire.
“La radioterapia gioca un ruolo essenziale anche a supporto degli altri mezzi che abbiamo per curare i tumori” spiega Maria Cristina Messa, professoressa ordinaria di diagnostica per immagini e radioterapia presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca e membro del Consiglio di indirizzo di Fondazione AIRC. “Nei diversi casi, la radioterapia può essere utile da sola o anche prima o dopo un intervento chirurgico o una chemioterapia, per ridurre il volume della massa o eliminare eventuali cellule tumorali residue. In alcuni casi addirittura apre la strada ai farmaci, consentendo loro di penetrare nel tessuto nervoso centrale attraverso quella che chiamiamo ‘barriera ematoencefalica".
Anche la più recente immunoterapia può beneficiare della radioterapia, che in alcune situazioni è in grado di potenziarne l’effetto. “Negli ultimi anni si è visto che la radioterapia non agisce solo a livello locale, ma può avere effetti mediati dal sistema immunitario che si estendono a tutto l’organismo” aggiunge Stefano Arcangeli, direttore della Struttura complessa di radioterapia presso l’ospedale San Gerardo di Monza e professore associato presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca. “Il tumore irradiato, infatti, rilascia detriti cellulari che attivano una memoria immunologica. Questa agisce come un potente vaccino: non solo è in grado di attivare l’immunità antitumorale localmente (in-field, cioè nel campo irradiato), ma anche a distanza. Nel momento in cui i linfociti incontreranno una cellula metastatica in un organo distante da quello colpito dal tumore primitivo, la sapranno riconoscere e contrastare meglio.”
Eppure, per molto tempo abbiamo associato l’esposizione alle radiazioni a un calo delle difese immunitarie, non a un loro potenziamento. “Questo perché una volta la radioterapia era molto più aggressiva e doveva essere applicata ad aree più vaste” precisa Arcangeli “per cui poteva danneggiare le cellule del sistema immunitario e provocare molti più effetti indesiderati anche ad altri livelli. Oggi il paradigma è completamente cambiato e le radiazioni sono indirizzate con precisione sul solo tumore, risparmiando sempre di più i tessuti circostanti.”
Se in origine la radioterapia aveva sempre una tossicità elevata, oggi è bene sapere che essa rappresenta un trattamento efficace, sicuro, che può essere somministrato in maniera non invasiva in qualunque parte del corpo. Per questo talvolta può rappresentare una buona alternativa all’intervento chirurgico, soprattutto nei pazienti più fragili e anziani che in sala operatoria rischierebbero di più.
Eppure questo tipo di trattamento continua a pagare la cattiva fama delle radiazioni ionizzanti di cui fa uso. Tutti ne conoscono i possibili effetti dannosi: di radiazioni si sente parlare in relazione sia agli effetti delle bombe atomiche esplose a Hiroshima e Nagasaki, il cui sviluppo è stato recentemente riportato alla ribalta dal film Oppenheimer di Christopher Nolan, sia al timore suscitato dagli incidenti alle centrali di Chernobyl e Fukushima.
L’uso delle radiazioni in radioterapia, invece, non può in alcun caso causare conseguenze simili, perché si tratta di un’applicazione del tutto diversa per dosi e modalità, che ha rappresentato, insieme alla chirurgia, la prima arma nella cura del cancro.
“Oggi la radioterapia produce molti meno effetti indesiderati di un tempo. Anzi, possiamo dire che, col passare degli anni, la riduzione della tossicità della cura è andata di pari passo con l’aumento della sua efficacia. Questo in parte è dovuto a nuove tecnologie, dette ‘ad alto gradiente’, che ci permettono di concentrare meglio il fascio di radiazioni, risparmiando i tessuti circostanti” spiega Arcangeli. “Ma la maggiore precisione è dovuta soprattutto alla diagnostica per immagini, che ora è molto più accurata di quella di cui si disponeva all’alba dell’oncologia moderna. Oggi TC, PET e risonanza magnetica permettono spesso di individuare il tumore in fase precoce, quando è di dimensioni più piccole, per cui può essere eliminato irradiando un volume di tessuto minore. Inoltre, gli stessi strumenti ci consentono di localizzare in maniera molto precisa i limiti del tumore, così da ridurre al minimo il danno sul tessuto sano circostante. Infine, oggi possiamo utilizzare la diagnostica per immagini anche durante la seduta di radioterapia, per guidare il fascio di radiazioni diretto contro la massa da trattare. Questo è utile soprattutto quando la massa si trova in una sede “mobile”, che cioè potrebbe spostarsi in seguito a movimenti involontari (respirazione, battito cardiaco o peristalsi intestinale), poiché consentirebbe di ridurre il volume del tessuto da trattare.”
La scorsa estate ha guadagnato molto risalto nelle cronache il risultato di una ricerca pubblicata sul prestigioso New England Journal of Medicine, secondo cui, nelle donne con tumore al seno localizzato in fase precoce a prognosi favorevole (sottotipo Luminal A), sarebbe possibile evitare la radioterapia dopo l’intervento. Gli esiti della cura, infatti, risulterebbero simili anche somministrando solo il trattamento ormonale nel corso degli anni per ridurre il rischio di recidiva.
“Il rapporto tra costi, rischi e benefici alla base di questo lavoro si riferisce però a protocolli in cui le donne, dopo l’intervento al seno, dovevano sottoporsi a 5 settimane di sedute di radioterapia, con il disagio che ne conseguiva” prosegue il radioterapista. “Oggi la prassi è trattare queste pazienti con un ciclo di sole 5 sedute, per cui il disagio del trattamento è molto minore di un tempo. La sfida diventa invece capire quale delle due opzioni, sola radioterapia o sola terapia ormonale, garantisca un miglior rapporto tra efficacia e impatto sulla qualità della vita in questo gruppo selezionato di pazienti. È quello che sta cercando di fare uno studio randomizzato, il trial Europa, coordinato da un centro italiano.”
I lunghi periodi di trattamento rappresentano un grosso ostacolo soprattutto per le persone che abitano lontano dalle strutture dove viene effettuata la radioterapia. Diversamente dalla chemioterapia, che può essere somministrata ovunque, la radioterapia richiede infatti impianti costosi che fino a qualche anno fa erano distribuiti in maniera molto disomogenea sul territorio nazionale, con il solito gradiente tra Nord e Sud che penalizza sotto molti aspetti le regioni meridionali.
“La situazione oggi è molto cambiata” rassicura Maria Cristina Messa, che oltre a essere stata rettrice dell’Università Bicocca ha ricoperto il ruolo di ministra dell’università e della ricerca nel governo Draghi. “Negli ultimi anni sono stati fatti molti investimenti per garantire anche alle aree più svantaggiate le apparecchiature necessarie. A questo sforzo già in atto si sono aggiunti i fondi del PNRR, il 40 per cento dei quali deve andare al Sud, e che hanno già permesso di acquistare macchinari sia per la diagnostica sia per la radioterapia. Da questo punto di vista, quindi, le diseguaglianze si stanno riducendo, ma a mancare sono soprattutto le risorse umane. Da un lato si assiste a una migrazione da Sud verso Nord di professionisti, oltre che di studenti; dall’altro tutto il settore, ovunque, soffre di carenza di personale. Le scuole di specializzazione in radioterapia e in medicina nucleare risultano poco attrattive per i giovani medici, forse perché considerate meno remunerative di altre. I posti messi a disposizione in questi campi spesso restano vuoti.”
Un aiuto in questo senso potrebbe venire dai sistemi di intelligenza artificiale, che già si stanno dimostrando in grado di affiancare il radiologo nella lettura delle immagini per la diagnostica, riducendo il numero di professionisti necessari per svolgere la stessa funzione. “Ciò potrà migliorare la precisione del trattamento che, come sopra ricordato, oggi conta molto sull’ausilio della diagnostica per immagini prima della terapia, durante la seduta e nel suo monitoraggio. L’intelligenza artificiale potrà darci grossi vantaggi anche in termini di medicina personalizzata. Questi sistemi sono in grado di analizzare in tempi brevi un’enorme mole di dati utili a predire come reagiranno alle radiazioni i tessuti tumorali e quelli sani circostanti. Ciò potrà aiutarci quindi ad adattare a ogni soggetto – e addirittura a ogni seduta – le dosi di radiazioni più efficaci e meno tossiche in quella specifica situazione” conclude Arcangeli.
Roberta Villa