Ultimo aggiornamento: 5 maggio 2022
L’analisi approfondita del DNA consente non solo di personalizzare le cure, ma anche di individuare chi potrebbe essere più fragile una volta superato il tumore.
Due articoli appena pubblicati su riviste scientifiche specializzate in cancro e genomica mostrano come l’analisi approfondita del DNA tumorale possa guidare i medici nell’assistenza ai piccoli pazienti sia durante le cure sia nei controlli successivi.
Il cancro è ancora oggi la prima causa di morte per malattia nei bambini e negli adolescenti. Grazie ai progressi degli ultimi decenni, circa l’85 per cento dei pazienti pediatrici è vivo a 5 anni dalla diagnosi, ma, nei casi in cui il tumore si ripresenta, individuare una cura efficace è estremamente difficile. Nel primo articolo, alcuni ricercatori coinvolti nello studio clinico internazionale MAPPYACTS hanno riportato i dati ottenuti nell’ambito di uno studio sul profilo genetico di tumori pediatrici recidivanti. Scopo dello studio era trovare nel DNA informazioni utili a individuare la terapia più adatta a ciascun paziente.
Lo studio ha coinvolto 774 pazienti che avevano meno di 18 anni alla diagnosi di tumore, reclutati in 18 centri oncologici in Francia, Italia, Irlanda e Spagna. Di questi pazienti, tutti andati incontro a una ricaduta, 687 avevano un tumore solido (sarcomi, tumori cerebrali e altri tipi di cancro) e 87 una leucemia o un linfoma. Sono stati raccolti campioni di tumore da ciascun paziente, il cui DNA è stato sequenziato con una tecnica chiamata WES (Whole-Exome Sequencing).
I risultati del sequenziamento sono stati esaminati da gruppo interdisciplinare di esperti, chiamato Molecular tumor board (MTB), con competenze in oncologia, anatomia patologica, genetica e bioinformatica. Obiettivo del gruppo era interpretare correttamente tutte le informazioni disponibili, non solo il profilo genetico del tumore, ma anche la sede, le caratteristiche del tessuto tumorale e del paziente, al fine di ottimizzare le cure.
Su dieci pazienti il cui tumore era stato sequenziato con successo, sette avevano almeno un’alterazione genetica che rendeva il loro cancro potenzialmente suscettibile a farmaci a bersaglio molecolare. Per il 10 per cento delle neoplasie con queste alterazioni esisteva già un farmaco efficace, mentre per altre erano in sperimentazione delle terapie. Seguendo le raccomandazioni del MTB, 107 pazienti sono stati trattati con la terapia a bersaglio molecolare specifica per la mutazione riscontrata, da sola o in combinazione con altri farmaci. Complessivamente quasi un paziente su cinque ha risposto in modo oggettivo alla terapia, e due su cinque tra coloro che avevano un’alterazione genica per cui esisteva un farmaco la cui efficacia era già stata dimostrata.
“I risultati dello studio MAPPYACTS dimostrano la fattibilità della profilazione molecolare del tumore in caso di recidiva di un cancro pediatrico” spiegano gli autori dello studio. I dati sono stati pubblicati sulla rivista Cancer Discovery. “La complessità del cancro giustifica l’introduzione delle più moderne tecniche di sequenziamento (“high-throughput sequencing”) e le raccomandazioni di trattamento [sulla base dei risultati del sequenziamento] come standard di cura per i tumori ad alto rischio.”
Veniamo ora al secondo articolo, concentrato sull’utilità dello studio del DNA nei cosiddetti “cancer survivors”, ossia in chi è ancora vivo dopo 5 anni dalla diagnosi. Chi ha avuto un tumore in giovane età mostra spesso segni di invecchiamento precoce, sviluppando prematuramente patologie che normalmente affliggono persone molto più anziane. Gli scienziati pensano che ciò dipenda da un insieme di fattori, tra cui aspetti ambientali, gli effetti secondari delle cure contro il cancro cui si sono sottoposti, comportamenti poco salutari, malattie croniche e fattori genetici. I segni dell’invecchiamento sono rilevabili anche nel DNA, sotto forma di modificazioni epigenetiche. Si tratta di cambiamenti che non alterano la sequenza del DNA ma la sua espressione. L’accelerazione della cosiddetta “età epigenetica” (EEA), e quindi la presenza nel DNA di una quantità maggiore di modificazioni epigenetiche rispetto alla media di una determinata età anagrafica, aumenta il rischio di sviluppare malattie legate all’invecchiamento.
Un gruppo di studiosi del St. Jude Children’s Research Hospital di Memphis (USA) ha preso in esame quasi 3.000 ex pazienti dell’istituto. In campioni conservati di sangue di questi cancer survivors, i ricercatori hanno sequenziato l’intero genoma e caratterizzato lo stato di metilazione del DNA con una tecnica specifica. La metilazione è una delle modificazioni epigenetiche più comuni. Hanno quindi verificato se tra le varianti genetiche presenti nel genoma e l’accelerazione dell’età epigenetica vi fosse qualche possibile relazione.
I dati ottenuti hanno suggerito che alcune mutazioni nel gene SELP e nella regione HLA, mai descritte prima, possono essere coinvolte nell’invecchiamento precoce dei cancer survivors. “I nostri dati identificano varianti genetiche che contribuiscono all’accelerazione dell’età epigenetica e che potrebbero spiegare perché le persone reagiscono diversamente alla tossicità delle terapie antitumorali” riassumono gli autori della ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Genome Medicine. “Le nuove varianti genetiche individuate, in combinazioni con altre varianti note, potrebbero facilitare l’individuazione di chi, sopravvissuto al cancro, ha un rischio più alto di invecchiamento accelerato. In teoria potrebbero anche permettere di identificare bersagli terapeutici per future strategie di intervento nelle persone più vulnerabili”.
Agenzia ZOE