Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
In ogni famiglia di un malato oncologico c'è una persona che si fa carico più di altri della cura: è il cosiddetto caregiver primario, che spesso paga questo ruolo in termini sia economici sia di salute.
Lo hanno dimostrato molti studi negli ultimi anni, condotti via via che cresceva la consapevolezza della complessità delle conseguenze del cancro sulla vita di chi è coinvolto, e soprattutto dei bisogni non strettamente clinici che esso induce: anche chi si prende cura di un paziente, il caregiver, magari per anni, ha bisogno di essere assistito o, quanto meno, protetto da rischi piuttosto seri, ed educato a gestire la situazione senza venirne travolto dal punto di vista psicologico, fisico e persino economico.
Per capire che cosa significhi, e come assisterlo al meglio, è necessario comprendere fino in fondo che cosa fa un caregiver e poi inquadrare tutti i possibili effetti di un'attività così totalizzante e faticosa per molti aspetti. A fare il punto ci hanno pensato alcune recenti metanalisi, cioè revisioni degli studi pubblicati, dalle quali emerge un quadro piuttosto omogeneo e utile per predisporre opportune strategie preventive.
La lista dei compiti di chi assiste un malato oncologico è molto lunga: dalla cura quotidiana della persona ai trasporti, dalle faccende domestiche alla comunicazione con amici e parenti, dalla gestione delle terapie al supporto emotivo. Inoltre bisogna pensare all'organizzazione di attività che aiutino il malato a socializzare e a restare attivo, prendere decisioni sulla cura, fare valutazioni (ed eventuali scelte) economiche. Sono incombenze di varia natura, da sostenere per periodi di tempo a volte molto lunghi. Secondo un'indagine condotta tra i caregiver dell'American Cancer Society e intitolata Study of Cancer Survivors, tutto ciò richiede un impegno che, nei primi due anni dalla diagnosi, occupa in media 8,3 ore al giorno per un totale di 13 mesi su 24 (con picchi di oltre 10 ore per alcuni tumori come i linfomi non Hodgkin). Un impegno, in alri termini, che può significare la necessità di rinunciare alla propria vita e al lavoro, almeno per un certo periodo di tempo, e che per molti assorbe ogni energia fisica e mentale.
La prima conseguenza di un impegno che, anche quando è portato avanti con amore, rimane sempre gravoso, è la ricaduta sulla psiche, perché chi si prende cura di un malato cerca sempre di sostenerlo anche a livello psicologico, di infondere speranza e ottimismo, di distrarlo e di fargli mantenere un buon livello di relazioni sociali, quasi sempre mascherando la propria preoccupazione per il futuro, lo stress, la depressione. E tutto ciò si traduce in perdita di sonno e di appetito, a volte di motivazione in generale, comparsa di depressione e ansia, spesso gravi e riconoscibili clinicamente (secondo diversi studi addirittura in un caregiver su due, soprattutto nelle persone più giovani o più anziane, specie se sono donne. Sono fattori di rischio per il malessere del caregiver anche il basso livello culturale e le scarse relazioni sociali, essere il marito o la moglie del malato oppure essere un familiare single (per esempio un figlio o una figlia single).
È indispensabile quindi predisporre ogni possibile strategia per evitare di farsi carico in solitudine di situazioni difficili, col rischio di esserne risucchiati e di provocare conseguenze molto pesanti (che oltretutto ricadono a loro volta sul malato, in un circolo vizioso dal quale è poi ancora più difficile uscire.
L'impatto della scoperta di un tumore in una persona cara non è solo psicologico: anche il fisico ne risente, come hanno mostrato molti studi, che hanno fatto emergere un legame stretto tra il cancro di un familiare e il peggioramento generale della salute di chi se ne fa carico, soprattutto quando il caregiver è una persona anziana, che magari ha già una o più malattie da tenere sotto controllo.
Gli effetti negativi sono anche diretta conseguenza della perdita di sonno, di appetito, di forze in chi spesso deve rinunciare ad attività che hanno un effetto positivo, come quelle fisiche o di socializzazione. Secondo uno studio condotto dai ricercatori dell'Ospedale San Bortolo di Vicenza, pubblicato su Cancer Nursing e relativo a un gruppo di caregiver messi a confronto con altrettante persone simili per età e condizione che non si stavano prendendo cura di un malato oncologico, oltre ad ansia, depressione e disturbi del sonno e dell'umore, sono quasi sempre presenti alterazioni della pressione, tanto più evidenti quanto più è lungo il periodo di cure prestate.
Eppure, per costoro si fa molto poco: secondo uno studio americano, più dell'80% non riceve alcun tipo di aiuto diretto o indicazione utile. Anche se le informazioni allevierebbero la fatica, come conferma uno studio italiano, pubblicato su Tumori nel 2015 e condotto dal gruppo di Stefano Cascinu, oggi dirigente della Clinica di oncologia medica del Policlinico di Modena, su 137 parenti di pazienti: la prima necessità che emerge è avere maggiori informazioni sulle cure e sulla malattia del congiunto e avere contatti più facili e frequenti con i medici curanti; un dato che potrebbe sembrare sorprendente, ai tempi di internet, ma che mette anch'esso in luce la necessità di non essere lasciati da soli.
Anche se i parenti non lo considerano il problema principale, dedicarsi a un malato spesso significa vedere la propria condizione economica peggiorare, soprattutto in tempi di precariato delle attività lavorative, non solo perché è quasi sempre necessario partecipare alle spese per le cure, gli spostamenti e l'assistenza professionale, ma anche perché il tempo impiegato ad assistere è sottratto al lavoro, con conseguenze che sono state spesso quantificate, negli ultimi anni, in diversi Paesi. I risultati cambiano a seconda del sistema sanitario e del welfare lavorativo: in Italia, per esempio, i permessi per recarsi a fare le terapie e le riduzioni di orario legate ai cicli di cure sono accordati anche ai caregiver purché legati da un vincolo di parentela fino al terzo grado. Non sono invece riconosciuti ai conviventi di qualsiasi sesso, una lacuna che alcune norme attualmente in discussione in Parlamento cercano di colmare.
Molto spesso (secondo alcuni studi in più del 50% dei casi), tutto il sistema di vita dei caregiver viene modificato: le relazioni affettive, le abitudini, le vacanze, l'uso del tempo libero sono spesso azzerati o molto ridimensionati.
In molte realtà (anche italiane) esistono sistemi di supporto anche per i caregiver /dalle associazioni ai gruppi di supporto tenuti da psiconcologi), ma le ricerche fatte portano quasi tutte allo stesso risultato: anche quando esistono sono quasi sempre usati poco e male. Per questo c'è ampio spazio di miglioramento, ed è evidente che in parte l'assistenza va ripensata, includendo nei programmi anche l'aiuto a queste figure fondamentali.
Secondo alcune rilevazioni, un oncologo, durante la sua carriera, comunica una brutta notizia non meno di 200.000 volte. Chi gli insegna come si fa? Oggi ci pensano, sempre più spesso, i corsi universitari, che includono esami di psicologia medica e comunicazione tra medico e paziente. Ma per la generazione di medici attualmente in servizio l'unico strumento a disposizione spesso è la propria capacità empatica, affinata dall'esperienza. Con tutte le conseguenze: errori, cattiva gestione dei caregiver, burn out (grave depressione del medico stesso) e così via. Anche per questo l'Istituto nazionale tumori, insieme all'Università degli studi di Milano, ha recentemente dato il via, nell'ambito della Scuola di specializzazione in oncologia, la cattedra di psiconcologia, subito ribattezzata "di umanità". A dirigerla è Gabriella Pravettoni, docente di psicologia delle decisioni dell'ateneo milanese e direttore del servizio di psiconcologia dell'Istituto europeo di oncologia che, nel presentare il corso, ha posto l'accento proprio sui familiari. Non a caso, il corso è specificamente strutturato in modo da formare i medici e gli studenti a includere anche loro in tutte le fasi della malattia, dalla diagnosi al fine vita.
Molti studi dimostrano proprio il bisogno di una formazione spcifica; su tutti, uno dell'Università di Seattle presentato a un recente congresso dell'American Society for Radiation Oncology nel quale 137 operatori (tra chirurghi oncologi, radioterapisti e oncologi medici) hanno risposto a una serie di domande sul tema e ammesso, in due terzi dei casi, che, anche se la comunicazione di notizie negative fa parte della routine quasi quotidiana, la loro preparazione su questo aspetto è stata carente.
Gli americani, si sa, amano gli elenchi. Quasi tutti i grandi centri hanno liste di consigli su cosa fare; ecco una sintesi di una delle più complete tra quelle rivolte al caregiver.
Agnese Codignola