Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Il meccanismo di riciclo ed eliminazione dei rifiuti cellulari ha un ruolo essenziale nel benessere delle cellule: lo ha scoperto Yoshinori Ohsumi, premiato per questo col massimo riconoscimento. Ora altri scienziati cercano di comprendere come l'autofagia sia collegata al cancro.
Siamo tutti cannibali di noi stessi. Lo sono le nostre cellule, attraverso il meccanismo dell'autofagia, termine mutuato dal greco e contenente il verbo faghein, mangiare. E lo devono essere, per garantirci un buono stato di salute dalla nascita fino all'ultimo respiro. Per questo il comitato del Nobel ha assegnato il premio per la medicina e la fisiologia del 2016 a colui che più di tutti ha contribuito a dimostrare l'esistenza del fenomeno, e a spiegarlo nei particolari, facendo vedere anche le sue implicazioni e potenzialità per la salute umana: il giapponese Yoshinori Ohsumi.
L'autofagia in realtà non è nuova al più ambìto dei riconoscimenti, già assegnato per ben due volte a coloro che hanno posto le basi per il lavoro di Ohsumi, descrivendo fenomeni dell'epoca poco chiari. La storia nasce infatti negli anni cinquanta, quando iniziano a esser descritti gli "organelli", particelle interne alle cellule che digeriscono proteine, zuccheri e grassi. Ma si deve arrivare agli anni settanta perché il belga Christian de Duve identifichi strutture più grandi, nelle quali sono spesso contenuti gli organelli: i lisosomi. La scoperta vale a de Duve il Nobel del 1974: per la prima volta viene posta l'ipotesi di un compartimento specializzato nello smaltimento dei rifiuti cellulari, per quella che lui stesso chiama autofagia.
Gli studi continuano, e verso la fine del secolo si giunge a identificare il proteasoma, cioè il sistema che "smonta" le proteine; tale scoperta porterà al secondo Nobel, nel 2004, dato ad Aaron Ciechanover, Avram Hershko e Irwin Rose. Ma il proteasoma non è attrezzato per smaltire i rifiuti e la domanda, quindi, non può che essere: è l'autofagia a svolgere questo compito?
La risposta la fornisce Ohsumi, che in un primo momento lavora sui lieviti, organismi facili da studiare, anche dal punto di vista genetico. Lo scienziato dimostra infatti, con esperimenti tanto semplici quanto chiari, che l'autofagia esiste davvero ed è supportata da un complesso sistema grazie al quale ciò che deve essere destrutturato e poi riciclato viene riconosciuto e trasportato specificamente ai lisosomi. In seguito, nel 1992, Ohsumi descrive le proteine e tutti gli elementi che rendono possibile l'autofagia. Negli anni seguenti arriva poi la risposta che tutti aspettano: questo meccanismo è presente anche negli esseri superiori, uomo compreso (i geni coinvolti sono, al momento, 35). Spiega Francesco Cecconi, del Dipartimento di biologia dell'Università Tor Vergata di Roma, che da anni lavora sull'autofagia anche grazie a finanziamenti AIRC: "Questo Nobel, dato a ricerche veramente di base, spiega più di tante parole perché è importante finanziare la ricerca: quello dischiuso dal lavoro di Ohsuni è un intero mondo, di cui prima del 2000 si ignorava l'esistenza. E questo mondo ci aiuterà anche a sconfiggere i tumori".
Via via che l'autofagia viene disvelata, spiega il biologico, se ne capisce sempre meglio il ruolo. In generale, il sistema entra in funzione in condizioni di stress, per esempio durante il digiuno, oppure un'infezione, ma anche per assicurare la corretta maturazione degli organi in gravidanza e poi nello sviluppo e, ancora, per mantenere l'equilibrio metabolico durante tutta la vita. Per questo, un suo malfunzionamento è già stato associato a tutte le principali malattie, dal diabete a quelle neurodegenerative, fino al cancro. E da quando il cancro è entrato nel novero delle patologie che risentono dell'autofagia, si è iniziato a pensare anche a come intervenire. Chiarisce Cecconi: "L'autofagosoma (l'insieme di tutto ciò che permette l'autofagia) è regolato in maniera estremamente raffinata e complessa attraverso geni, fattori di trascrizione, RNA normali e micro e così via: tutti protagonisti sui quali si potrà intervenire in modo selettivo, visto che agire su tutto il meccanismo sarebbe probabilmente troppo pericoloso per l'equilibrio della cellula". Ed è questo il campo in cui il gruppo sta lavorando e nell'ambito del quale ha già identificato una proteina potenzialmente molto importante, Ambra1.
Il lavoro di Francesco Cecconi, nel 2014, gli ha fruttato la pubblicazione su una delle bibbie della biologia di base: Nature Cell Biology. Perché la proteina dell'autofagosoma descritta dal suo gruppo, chiamata Ambra1, è posta all'incrocio di due macchine cellulari fondamentali nel cancro: quella appunto dell'autofagia e quella della replicazione cellulare. Spiega Cecconi: "Quando è attiva l'autofagia, la replicazione non c'è o è silente, probabilmente perché il momento è delicato e va regolato in ogni più piccolo particolare, e perché le energie a disposizione vengono dirottate sul riciclo. Ma l'equilibrio è fragile e, quando Ambra1 non funziona bene o è addirittura ferma, tutto il processo si altera e la replicazione si attiva, innescando la duplicazione cellulare". Che sia così, del resto, lo confermano le due proteine poste a monte e a valle di Ambra1: mTOR e c-myc, rispettivamente, entrambe ben note a chi si occupa di oncologia, importantissime e, non a caso, bersaglio di diversi farmaci antitumorali.
Gli studi stanno proseguendo per capire quali tipi di anomalie di Ambra1 possano essere più pericolose e, in generale, le complesse relazioni tra la stessa mTOR e c-myc, con lo scopo di individuare sempre più bersagli specifici in queste catene metaboliche, per fermare il cancro senza compromettere nessun altro fenomeno fisiologico.
Agnese Codignola