Ultimo aggiornamento: 24 luglio 2023
Dai batteri intelligenti alle nanoparticelle, sono sempre più numerose le strategie per migliorare l’efficacia delle attuali terapie antitumorali.
Nel corso degli ultimi decenni, la ricerca contro il cancro ha compiuto enormi passi avanti nell’identificare nuove terapie più efficaci e personalizzate, con notevoli benefici per i pazienti. In Italia sono in continua crescita le probabilità di guarire da un tumore, ovvero di raggiungere la stessa attesa di vita delle persone senza la malattia e con le stesse caratteristiche di sesso ed età. La ricerca però non si ferma e sforna costantemente nuovi trattamenti o rende più efficaci quelli esistenti. Ecco alcuni esempi di strategie che in un futuro non molto lontano potrebbero essere applicate alla cura dei tumori.
Ingegnerizzare un batterio per renderlo capace di trasportare molecole in un determinato sito e poi di rilasciarle a comando: ci sono riusciti i ricercatori del Massachusetts General Hospital negli Stati Uniti, che hanno modificato Escherichia coli, in particolare il ceppo Nissle 1917, migliorando la sua capacità naturale di trasportare e rilasciare molecole nell’intestino umano. Come si legge sulla rivista Cell Host & Microbe, dove sono stati pubblicati i risultati della ricerca, i batteri, modificati per rilasciare una molecola antinfiammatoria, sono risultati efficaci quanto la somministrazione classica della terapia nel limitare lo sviluppo di colite in topi con malattia infiammatoria intestinale. Gli autori spiegano che tali batteri possono essere modificati per trasportare e rilasciare diversi tipi di farmaci contro le infiammazioni che partono dall’intestino, ma anche per contrastare alcuni tipi di tumore, e su questi aspetti stanno concentrando i loro sforzi. In conclusione i ricercatori hanno dichiarato: “Speriamo di progredire con la modifica di questi ceppi, e arrivare così a trattare diverse patologie attraverso la loro capacità di secernere molecole curative”.
Immaginate un farmaco che viene somministrato una sola volta, ma che viene rilasciato nell’organismo lungo un periodo di diverse settimane, o addirittura mesi. Sarebbe un grande aiuto per chi deve sottoporsi a terapie per malattie croniche o anche soltanto a vaccinazioni che richiedono richiami dopo la prima dose. Negli Stati Uniti, un gruppo di bioingegneri della Rice University di Houston, in Texas, ha trovato il modo per creare questi farmaci “programmabili” e lo ha descritto sulla rivista Advanced Materials.
Si tratta in particolare di speciali microparticelle che possono essere progettate in modo da rilasciare il proprio contenuto (in questo caso un farmaco) dopo un intervallo di tempo prestabilito. Come spiegano gli autori, questa non è una particolare novità. La differenza rispetto ai sistemi a rilascio prolungato già esistenti è che questo nuovo metodo potrebbe permettere di rilasciare la stessa quantità di farmaco sia al momento della somministrazione iniziale sia dopo un certo periodo di tempo. “I sistemi attuali invece sono molto meno efficaci al secondo rilascio rispetto a quello iniziale” hanno affermato i ricercatori, ricordando che la microparticella da loro ideata non si muove dal sito nel quale viene posizionata inizialmente. Potrebbe essere una caratteristica interessante anche per far arrivare la chemioterapia direttamente nel tumore in diversi momenti.
I risultati di uno studio svolto negli Stati Uniti, all’Università di Pittsburgh, e pubblicati sulla prestigiosa rivista Cell, hanno chiarito un possibile legame tra microbiota intestinale e risposta all’immunoterapia. In particolare gli autori della ricerca hanno scoperto, in esperimenti di laboratorio, che il batterio Lactobacillus reuteri si sposta dall’intestino al tumore, dove stimola il sistema immunitario tramite il rilascio di un composto noto come indolo-3-aldeide (I3A). La somministrazione sperimentale del batterio in animali di laboratorio con melanoma ha portato a una riduzione delle dimensioni del tumore e a una maggiore sopravvivenza. I ricercatori hanno anche dimostrato che una delle molecole chiave di questa azione antitumorale è proprio l’I3A. Passando dal laboratorio agli esseri umani, i ricercatori hanno osservato che i pazienti con melanoma che rispondevano meglio all’immunoterapia erano quelli con i livelli più elevati di I3A. “Questa molecola potrebbe diventare un marcatore per predire la risposta all’immunoterapia” hanno affermato gli esperti, che stanno valutando se e come la dieta possa avere un ruolo in questo scenario. Hanno infatti spiegato che “per formare I3A, il batterio ha bisogno di triptofano, un aminoacido presente in alimenti come noci, soia, semi e avena”.
Agenzia Zoe