Ultimo aggiornamento: 10 luglio 2020
Se un medico ritiene che un paziente possa trarre beneficio da una cura ancora sperimentale e non disponibile in commercio, esistono diversi strumenti legislativi, in Italia e all’estero, perché il malato possa accedervi, purché vi siano ragionevoli probabilità che la cura sia utile
Capita di leggere sui giornali storie di pazienti che si sono sottoposti all’estero a terapie anticancro non disponibili in Italia. La migrazione dei pazienti per accedere a cure non ancora registrate nel proprio Paese di origine è un fenomeno in crescita, così diffuso da aver indotto la rivista medica The Lancet, nel gennaio dell’anno scorso, a pubblicare un lungo articolo in merito, spiegando le insidie delle raccolte fondi lanciate online per sostenere tentativi di cura con farmaci non approvati o, peggio, con terapie pseudoscientifiche.
Dietro la richiesta di accedere a cure ancora sperimentali, infatti, vi sono spesso tante illusioni e poca scienza e, talvolta, anche il rischio di incappare in persone prive di scrupoli che promettono risultati non supportati da prove.
Vi sono comunque le dovute eccezioni. Può accadere che una terapia potenzialmente utile, o considerata tale dal medico curante, non sia accessibile per varie ragioni. I farmaci, prima di essere approvati per un certo utilizzo, devono dimostrare di non essere tossici e di essere effettivamente efficaci nella cura di una determinata malattia. Con lo sviluppo delle conoscenze in oncologia molecolare, un farmaco diretto contro uno specifico bersaglio presente in diversi tipi di tumori può risultare approvato per un solo tipo di cancro, anche se teoricamente potrebbe servire a curare anche altre forme tumorali.
“La scelta delle indicazioni di una terapia dipende da ragioni scientifiche (fare ricerca sulle singole malattie è lungo e faticoso) oppure economiche, perché l’autorizzazione ha un costo e l’azienda produttrice può non avere interesse a registrare una nuova molecola per indicazioni rare” spiega Massimo Di Maio, del Dipartimento di oncologia dell’Università di Torino, che per conto dell’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM) ha curato una recente guida alle normative che nel nostro Paese regolano l’accesso ai farmaci sperimentali. In altri casi ancora, invece, può capitare che il farmaco sia disponibile nei centri che fanno ricerca ma si siano esauriti i posti per i pazienti previsti dalla sperimentazione (che di solito riguarda un numero limitato di soggetti con caratteristiche ben precise).
Alla luce di questi ostacoli non sormontabili, gli Stati Uniti hanno approvato, nel maggio del 2018, una legge federale chiamata Right to Try, ovvero “diritto a provare”. L’iniziativa ha cercato di mettere ordine nella grande quantità di leggi simili promosse, a partire dal 2014, dai singoli stati degli USA, per permettere ai malati gravi e senza più opzioni terapeutiche di accedere a cure ancora sperimentali senza dover aspettare il parere favorevole della Food and Drug Administration, l’ente che approva le nuove molecole. “
Prescrivere un farmaco non approvato espone il medico che lo usa a rischi legali, e il Right to Try consente, se la richiesta è giudicata ragionevole da un’apposita commissione di verifica, di ottenere protezione legale in caso di eventuali effetti indesiderati non conosciuti” spiega Howard Burris III, presidente di ASCO, la più importante associazione di oncologia clinica statunitense. “I pazienti, però, provano farmaci non ancora del tutto sperimentati a loro rischio e pericolo e, spesso, anche a proprie spese. La legge, infatti, non prevede la copertura economica.” Anche se la promulgazione di questa norma aveva acceso le speranze di molti malati, in verità, da quando è in vigore, solo due pazienti hanno ottenuto il permesso di utilizzare terapie sperimentali fuori dai protocolli di ricerca. In tutti gli altri casi, la commissione che valuta le richieste ha ritenuto che vi fossero troppi rischi e insufficienti garanzie di benefici.
Anche in Italia è possibile accedere a terapie sperimentali non ancora approvate facendo riferimento a diverse leggi, come chiarisce la guida che AIOM ha appena rilasciato in una doppia versione, sia per il medico sia per i pazienti. “Vi sono diverse norme che regolano l’accesso precoce alle terapie, il cosiddetto early access” spiega Di Maio. “Innanzitutto, la legge 648/1996 prevede la possibilità di erogare, a carico del Servizio sanitario nazionale, farmaci con specifiche caratteristiche, in particolare nei casi in cui non siano disponibili alternative terapeutiche valide oppure si tratti di: medicinali innovativi in commercio solo in altri Stati; medicinali non ancora autorizzati, ma in corso di sperimentazione clinica; medicinali da impiegare per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata.
Vi è poi il fondo AIFA 5 per cento, per l’impiego, a carico del Servizio sanitario nazionale, sia di farmaci orfani per il trattamento di malattie rare sia di terapie che rappresentano una speranza di cura, in attesa della loro commercializzazione, per patologie particolari o gravi.” Proprio a seguito dell’istituzione di questo fondo da parte di AIFA (l’Agenzia italiana del farmaco, che approva i farmaci e ne determina il prezzo), le aziende farmaceutiche sono tenute a versare un contributo pari al 5 per cento del proprio fatturato annuo (nel 2018 il fondo ammontava a poco più di 18 milioni di euro, soldi a disposizione di chi ha bisogno di cure fuori prontuario).
“Un’altra via possibile, per chi deve ottenere una terapia non comune, è quella della legge 94/1998 che consente la prescrizione da parte di un medico, sotto la sua esclusiva e diretta responsabilità, di medicinali regolarmente in commercio ma per una indicazione non prevista. È il cosiddetto impiego off label” continua Di Maio. “A differenza degli esempi precedenti (che prevedono il rimborso del farmaco da parte del Servizio sanitario nazionale) e del ricorso al Fondo AIFA 5 per cento (che implica il rimborso da parte di AIFA), la legge 94/1998 prevede che la terapia sia a carico del paziente o dell’azienda sanitaria in caso di ricovero.”
Infine esiste anche un decreto ministeriale, emesso il 7 settembre 2017, che disciplina il ricorso al cosiddetto uso compassionevole, ovvero la prescrizione di una cura ancora in fase di sperimentazione clinica, al di fuori della sperimentazione stessa, in pazienti affetti da malattie gravi o che si trovino in pericolo di vita, quando, a giudizio del medico, non vi siano ulteriori valide alternative terapeutiche. L’uso compassionevole è consentito solo nel caso in cui il paziente non possa essere incluso in uno studio oppure per i malati già trattati nell’ambito di una sperimentazione ormai conclusa ma che abbiano ottenuto dei miglioramenti dalla cura. In questo caso i costi sono a carico delle aziende farmaceutiche.
Tutti questi strumenti possono essere usati anche per ottenere un farmaco in una Regione in cui non è disponibile. In Italia, infatti, le cure innovative vengono approvate a livello nazionale, ma ogni Regione ha un proprio prontuario, al quale sia i medici sia gli ospedali si devono attenere. È quindi possibile che, specie per le cure più costose, ci siano differenze di accesso, sia in termini di tempi sia di rimborsabilità. “Per ciascuno di questi utilizzi esistono procedure burocratiche che il medico deve avviare per ottenere l’autorizzazione” conclude Di Maio. “Si tratta di una tutela per i pazienti, perché una cura sperimentale ha sempre, per definizione, più incognite di una terapia già approvata.”
Nel mese di febbraio dell’anno scorso il giovane medico Lorenzo Farinelli, colpito da un linfoma non Hodgkin, cercava di raccogliere su una piattaforma di crowdfunding la somma necessaria a sottoporsi all’estero alla terapia CAR-T. Si tratta di una cura in cui i linfociti T del paziente vengono prelevati, modificati geneticamente in laboratorio per esprimere un recettore che li rende attivi contro la malattia, quindi reinfusi nel malato. Farinelli ha raggiunto la somma necessaria ma non ha fatto in tempo a partire. Dopo la sua scomparsa, la famiglia ha donato quanto raccolto a istituzioni legate alla ricerca oncologica.
La sua storia, come altre di pazienti che sono volati all’estero a spese proprie, ha messo in luce la particolarità e complessità delle terapie cellulari, per alcuni versi distanti dalle cure farmacologiche classiche. Sono differenze che rendono la registrazione e l’accesso a questo tipo di trattamento ancora più difficili: a limitarne l’uso ci sono le tante incognite legate alle indicazioni, agli effetti collaterali e, non ultimo, al costo.
Dal mese di settembre 2019, la prima terapia di tipo CAR-T è stata approvata dall’AIFA ed è disponibile per i pazienti con linfoma diffuso a grandi cellule B che non rispondono alle cure standard e per i pazienti fino a 25 anni di età con leucemia linfoblastica acuta a cellule B. Ma la terapia CAR-T non funziona per tutti ed è gravata da effetti collaterali anche importanti, specie di tipo neurologico. Per questa ragione l’AIFA ha selezionato alcuni centri di riferimento, gli unici autorizzati a somministrarla. Anche il pagamento della cura alle case farmaceutiche che la producono seguirà un percorso particolare: verranno pagati solo i trattamenti che funzionano, non quelli che falliscono.
Daniela Ovadia (Agenzia ZOE)