Non sempre fa paura quel che è più pericoloso

Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020

Non sempre fa paura quel che è più pericoloso

Se ne sono accorti gli esperti di sanità pubblica: ci sono rischi che tendiamo a sottovalutare e che invece hanno gravi conseguenze per la salute. Viceversa tendiamo a sopravvalutare rischi di piccola entità. Gli esperti di comunicazione del rischio sono alla ricerca di una soluzione basata sull'informazione.

Comunicare una brutta notizia, o segnalare un pericolo più o meno imminente, non è mai semplice: parlare del rischio di cancro - anche solo ipotizzandolo - è senz'altro uno di questi casi, ma la nostra vita quotidiana è in realtà costellata da un'infinità di attività potenzialmente rischiose che ci mettono davanti a una scelta. Non sempre ci fermiamo a riflettere su cosa è più saggio fare (o evitare di fare), e non di rado finiamo per adottare istintivamente comportamenti dettati dal desiderio di evitare un pericolo che però ottengono il risultato opposto, perché poggiano su basi molto fragili o del tutto inesistenti. Sappiamo che dovremmo sforzarci per acquisire un'abitudine sana o perderne una rischiosa, ma non sempre riusciamo a regolare la nostra vita in base a ciò che la ragione detta. In una certa misura - spiegano gli esperti che hanno concentrato la propria attenzione sul complesso argomento della percezione del rischio - è un fenomeno inevitabile.

Comprendere le cifre

Le cifre, che necessariamente sono alla base di qualsiasi valutazione scientifica dell'entità di un pericolo, sono importanti, ma spesso contribuiscono a creare una contrapposizione tra chi le capisce, ed è abituato a studiarle e analizzarle, e chi invece le trova poco chiare. L'esperto di rischio David Ropeik - che insegna all'Università di Harvard e ha da poco pubblicato un libro dedicato al fenomeno del divario nella percezione del rischio e intitolato Perception Gap - la spiega così: "Tutti i giorni ci sentiamo chiedere perché abbiamo così paura di eventi che potrebbero causare danni enormi ma sono estremamente improbabili, come per esempio un incidente aereo, e non facciamo nulla per evitare ciò che ha molte più probabilità di capitarci ma appare meno terrificante, come un cancro legato a stili di vita sbagliati. Una posizione che inviti ad assumere un atteggiamento razionale nei confronti del rischio finisce in realtà per diventare irrazionale, perché presuppone che tutti siano freddi calcolatori capaci di confrontare numeri e prendere sempre le decisioni più scientifiche".

Occorrerebbe dunque riconoscere che la modalità istintiva, emotiva e affettiva di percepire il rischio fa parte della natura umana, e bisogna farci i conti poiché fa parte del sistema decisionale. Per spiegare ciò che questo significa in concreto, Ropeik cita un caso clinico storico raccontato dal grande scienziato Antonio Damasio: il paziente Elliott, che dopo un intervento chirurgico al cervello si svegliò perfettamente in grado di usare i numeri, ma totalmente incapace di attribuire loro un valore, e che per questo motivo era incapace di fare una qualsiasi scelta: "La chirurgia aveva danneggiato le connessioni fra l'area della corteccia cerebrale (dove pensiamo e prendiamo le decisioni) e l'area limbica del cervello (associata ai sentimenti), per cui Elliott era in grado di elaborare i fatti, ma non riusciva ad attribuire loro nessun significato, nessuna valenza, nessun 'pro' o 'contro'" racconta Ropeik. "Come ha spiegato Damasio, le emozioni e i sentimenti possono mandare all'aria i processi legati al ragionamento, ma l'assenza di emozioni è altrettanto dannosa, e altrettanto capace di compromettere la razionalità. Persino quando disponiamo di un'informazione completa ed esauriente, insomma, le nostre percezioni su qualsiasi cosa rimangono soggettive".A questo si aggiunge il fatto che solo raramente disponiamo di un'informazione chiara, esauriente e completa, giacché di solito dobbiamo chiarirci le idee in una giungla di dati in parte contraddittori.

Leggi anche...

Una scelta di termini

In un contesto dominato dall'incertezza, da un lato ci sono numerosi fattori psicologici che contribuiscono a ridimensionare o a ingigantire i rischi che ci circondano (vedi box) e dall'altro ci sono molti modi diversi in cui un determinato rischio per la salute può esserci presentato, con effetti assai diversi secondo la modalità scelta per rappresentarlo: rischiamo quindi di percepirlo come più temibile di quanto non sia in realtà o viceversa siamo portati a trascurarlo. Secondo il biostatistico David Spiegelhalter, che insegna comprensione pubblica del rischio all'Università di Cambridge, in Inghilterra, esistono oltre 2.400 modi per "gonfiare artificialmente" un rischio - per esempio allo scopo di magnificare i benefici effetti associati a un "nuovo farmaco miracoloso".

Basta scegliere le parole, cambiare il modo di rappresentare graficamente i numeri: nel mondo di oggi questi metodi vengono usati di frequente, perché la paura è un fortissimo incentivo a spendere soldi nel tentativo di proteggere se stessi e i propri cari. Spiegelhalter sta lavorando alla messa a punto di alcuni metodi per permettere all'uomo della strada di farsi un'idea chiara della reale entità dei rischi associati, per esempio, all'uso di un farmaco o a determinate scelte di vita, e in generale è giunto alla conclusione che occorra resistere all'istinto di rifuggire qualsiasi forma di rischio: al contrario incoraggia tutti a conoscere meglio il rischio per assumerlo consapevolmente in piccole dosi, sapendo che fa parte della vita quotidiana, e il passaggio involontario dalla padella alla brace, dalla sottostima di un rischio importante alla sovrastima di uno trascurabile, è assai comune. In sostanza è l'informazione a garantire a ciascuno di noi la possibilità di fare le scelte utili sia dal punto di vista razionale sia da quello emotivo, anche nel delicato campo della prevenzione e della salute: e poiché in questo caso si parla di cifre e percentuali, sta agli esperti e a chi dà loro voce, come i giornalisti e i divulgatori, imparare a comunicare in modo comprensibile con la popolazione interessata.

L'oncologia con 5 P

"Analizzare e descrivere le scorciatoie cognitive che mettiamo in atto per decidere in modo rapido, e gli errori cognitivi che spesso queste scorciatoie comportano, è un esercizio analogo a quello di svelare le illusioni ottiche" spiega Gabriella Pravettoni, che dirige il Centro di ricerca interdipartimentale sui processi decisionali (IRIDe) dell'Università di Milano, dove insegna scienze cognitive. "In alcuni contesti cadiamo in vere e proprie trappole cognitive, che deformano le informazioni portandoci a prendere decisioni sbagliate. Questo è molto importante nel campo della medicina, di cui mi occupo in particolare, perché anche medici e pazienti devono imparare a non cadere nelle trappole cognitive associate alle esperienze passate, allo stato emotivo e a molti altri fattori". Nell'ambito specifico dell'oncologia, e in particolare della medicina personalizzata, questo approccio ha portato il gruppo diretto dalla professoressa Pravettoni a elaborare e proporre un nuovo modello che punta a incorporare anche gli aspetti psicologici nell'approccio al paziente. "Finora quando si parlava di medicina personalizzata si faceva essenzialmente riferimento alle caratteristiche genetiche della malattia e del paziente, senza prendere in considerazione in alcun modo gli aspetti psicologici e cognitivi legati alle sue scelte e alle decisioni terapeutiche, anche per i loro riflessi sulla qualità della vita. Abbiamo quindi proposto - con un articolo pubblicato di recente sulla rivista Nature Reviews Clinical Oncology - di affiancare alle quattro P che descrivono l'oncologia del presente e del futuro (personalizzata, predittiva, preventiva e partecipatoria) la quinta P della psicologia cognitiva, sempre più necessaria per arrivare a proporre una terapia davvero personalizzata e capace di considerare bisogni, necessità, intime convinzioni e aspettative di ciascun paziente, accrescendone in questo modo l'efficacia".

I fattori di percezione del rischio

Gli studi sulla percezione del rischio hanno individuato molti fattori che influenzano la nostra "decisione" subcosciente di aver paura di qualcosa, e determinano le caratteristiche della nostra paura e della nostra reazione.
Ecco l'elenco stilato da David Ropeik, autore di alcuni libri sul rischio e docente all'Università di Harvard, che su questo tema, nell'ottobre scorso, ha tenuto una conferenza anche al festival di BergamoScienza.

  • FIDUCIA: Più abbiamo fiducia in una determinata persona o in un comportamento, meno avremo paura, e viceversa.
  • RISCHIO E BENEFICIO: Più grande è il beneficio che si percepisce essere associato a qualsiasi scelta, meno si tende ad avere paura dei rischi associati a quella stessa scelta.
  • CONTROLLO: Quando si pensa di poter controllare la situazione - in senso fisico, ma anche in senso psicologico e di partecipazione al processo decisionale - qualunque situazione diventa meno spaventosa.
  • LIBERTÀ DI SCELTA: Le situazioni in cui ci rimane la possibilità di scegliere se e come affrontare un pericolo tendono a fare meno paura di quelle in cui un analogo rischio ci viene imposto dall'esterno (come è il caso, per esempio, dei rischi ambientali).
  • NATURALE o CREATO DALL'UOMO: I rischi naturali in genere ci spaventano meno di quelli derivanti dalle attività umane. Per questo percepiamo come più pericolosa la vicinanza con un'industria rispetto al cibo che mettiamo in tavola, indipendentemente dalla valutazione reale dei rischi associati.
  • TERRORE: Peggiori sono le conseguenze (in termini di maggiore sofferenza) di un rischio, più esso ci spaventa. Ecco perché per molto tempo la prevenzione del cancro è stata scarsamente seguita: meglio non far niente che affrontare la paura della malattia.
  • CATASTROFICO o CRONICO: Ci fanno più paura le cose che possono uccidere molte persone in uno specifico momento e in uno specifico luogo (come un attentato terroristico) rispetto a quelle che causano lo stesso numero di morti in modo cronico, distribuiti nello spazio e nel tempo (come una malattia o gli incidenti d'auto).
  • INCERTEZZA: Più ampia è l'incertezza sulla reale entità di un rischio, maggiore il timore. L'incertezza può nascere quando non ci sono dati concreti o quando non siamo in grado di comprenderli (le cose invisibili sono incerte per definizione e questo spiega il particolare timore suscitato da potenziali rischi invisibili come le onde elettromagnetiche).
  • IO E LORO: A prescindere dai fatti, qualsiasi rischio sembra più grande quando pensiamo che possa riguardarci direttamente. Non importa se colpisce una persona su un milione se temiamo di essere quella persona.
  • FAMILIARE o NUOVO: Quando sentiamo parlare per la prima volta di un rischio, e non ne sappiamo molto, abbiamo più paura di quando abbiamo convissuto con lo stesso rischio per un po' e l'esperienza ci aiuta a vederlo in prospettiva.
  • BAMBINI: Temiamo di più i pericoli che colpiscono i bambini rispetto a quelli che riguardano la popolazione adulta.
  • PERSONIFICAZIONE: Un rischio associato a una specifica persona ci terrorizza di più di uno che statisticamente è altrettanto reale, ma lo è solo astrattamente nella nostra mente.
  • CORRETTEZZA/MORALITÀ: Ci fanno arrabbiare di più i rischi che riguardano i poveri, i deboli e i disabili rispetto a quelli che toccano i ricchi e i potenti. Ci arrabbiamo quando chi è esposto ai pericoli non fruisce per questo di nessun beneficio.
  • CONSAPEVOLEZZA: Più siamo consapevoli di un rischio - grazie ai media ma anche ai contatti sociali - più ne siamo preoccupati.