Non dimenticare screening e controlli

Ultimo aggiornamento: 5 ottobre 2020

Non dimenticare screening e controlli

La sospensione delle attività sanitarie ordinarie durante il lockdown ha un effetto a lungo termine soprattutto sulla tempestività della diagnosi. I primi dati pubblicati dalle riviste mediche confermano l’allarme e invitano anche i pazienti a non trascurare controlli e sintomi.

Sette malati di cancro su 10 hanno avuto paura di recarsi in ospedale durante la fase più acuta della pandemia, un timore che non è cessato con l’attenuarsi dei contagi. Lo afferma la più importante indagine pubblicata finora sui pazienti oncologici e la pandemia, promossa dagli Ospedali riuniti di Ancona e portata a termine su oltre 700 pazienti provenienti da tutta Italia. I risultati sono stati diffusi nello scorso mese di luglio. Il 53 per cento degli intervistati ha dichiarato di temere che la chemioterapia possa aumentare le probabilità di contagio (una evenienza purtroppo confermata dalla letteratura scientifica attualmente disponibile) e il 35 per cento teme lo stesso per l’immunoterapia (anche se, su questo fronte, i dati sono invece più rassicuranti).

L’oncologia italiana è pienamente promossa dai pazienti: il 93 per cento degli interpellati dichiara che lo staff sanitario è stato sempre raggiungibile via telefono o mail anche nei mesi di maggiore emergenza; per il 97 per cento dei malati, i centri oncologici hanno rispettato le norme di sicurezza stabilite dalle autorità; otto malati su 10 ritengono che il personale medico e sanitario abbia prestato la giusta attenzione alle loro ansie e preoccupazioni relative alla pandemia; l’89 per cento degli interpellati afferma di avere ricevuto indicazioni precise sui dispositivi di protezione individuale (guanti o mascherine) quando dovevano recarsi in ospedale.

Il contenimento del danno

Durante la primavera, quindi, nella fase più acuta dei contagi, gli oncologi italiani hanno compiuto uno sforzo notevole per evitare danni ai propri pazienti. Alessandro Gronchi, presidente della Società italiana di chirurgia oncologica e responsabile della chirurgia dei sarcomi all’Istituto nazionale dei tumori di Milano, conferma per esempio che l’accesso alle sale operatorie è stato necessariamente ridotto e limitato ai casi più urgenti, ma che gli interventi non rimandabili sono stati comunque eseguiti. “Tutti i pazienti che avevano bisogno di un intervento salvavita sono stati trattati, e questo sia nelle Regioni più colpite sia in quelle dove l’epidemia è stata per fortuna più contenuta. Ovviamente si è dovuto fare i conti con la mancanza di posti in terapia intensiva, spesso necessaria dopo gli interventi più importanti e invasivi, ma nei centri specializzati sono state riservate postazioni per la fase post-chirurgica.”

Sul piano delle terapie, invece, si è fatto ricorso, per quanto possibile, alle chemioterapie domiciliari o a percorsi assistenziali particolarmente protetti. L’Istituto superiore di sanità ha infatti prodotto una serie di indicazioni sia per il passaggio alle cure domiciliari di tutti i pazienti oncologici per i quali questa soluzione era percorribile – per esempio, quando possibile, sostituendo i farmaci chemioterapici da somministrare per via endovenosa con farmaci per via orale – sia per potenziare i servizi di assistenza domiciliare.

Diagnosi ritardate

Tutto ciò è servito a proteggere i pazienti più fragili durante la fase acuta, ma a che prezzo? Cosa è accaduto per esempio ai pazienti con sintomi sospetti che non avevano ancora potuto sottoporsi a esami di controllo? I dati stanno emergendo in questo periodo, anche grazie a una serie di studi internazionali, e mostrano che l’effetto più negativo si è avuto sulla tempestività delle diagnosi.

Uno studio pubblicato sulla rivista Lancet racconta, per esempio, quanto è accaduto in Gran Bretagna, un Paese il cui sistema sanitario è per molti versi simile a quello italiano, con medici di medicina generale che spesso sono il primo punto di contatto tra chi presenta disturbi e gli specialisti che poi li prendono in carico per le cure.

“Durante i mesi di maggior diffusione del virus, i medici di medicina generale hanno sconsigliato ai propri pazienti di recarsi presso gli ambulatori” spiega Daniel Jones, esperto di cure primarie in oncologia presso l’Università di Leeds, autore dello studio. “La maggior parte dei consulti, in Gran Bretagna come anche in Italia, sono avvenuti via telefono. E, per quanto bravo, può capitare che un medico sottostimi la gravità di un sintomo se non vede il paziente, specie se il cancro è nelle fasi iniziali. A ciò si è aggiunta la difficoltà di accedere ai test diagnostici, anche ai più semplici come le radiografie o gli esami del sangue. Il risultato è stato che il numero di cancri diagnosticati nel periodo di lockdown è diminuito, e questo fa supporre che verranno diagnosticati tardivamente, in una fase spesso più avanzata.”

Emergenza screening

Durante l’epidemia sono stati anche sospesi, in tutti i Paesi colpiti, gli esami di screening: l’eventuale vantaggio frutto di una diagnosi di tumore anticipata non giustificava il rischio di contagiarsi recandosi in ospedale. Il ritardo nelle campagne di screening è ancora un problema dopo la fine della fase acuta dell’emergenza, perché la riapertura dei servizi diagnostici è avvenuta gradualmente e con norme di distanziamento che ne riducono la capacità. Tutto ciò porterà inevitabilmente a una ulteriore riduzione delle diagnosi precoci e a un aumento dei casi di tumore identificati in fasi prevedibilmente più avanzate.

Lo conferma Giuseppe Curigliano, direttore della Divisione nuovi farmaci dell’Istituto europeo di oncologia a Milano e professore di oncologia medica: “Stiamo già vedendo casi più avanzati rispetto a quanto normalmente capitava fino a pochi mesi fa, in particolare per i tumori per i quali esistono screening come i tumori al seno e al colon, per non parlare del tumore al polmone. Ciò richiederà uno sforzo anche in termini di ricerca clinica per cercare di recuperare, per quanto possibile, il tempo perso a causa dell’epidemia”.

Il dato è confermato da un altro studio pubblicato da Lancet a opera di un gruppo di esperti dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam. “I dati del Registro nazionale tumori olandese, per il periodo da fine febbraio a metà aprile 2020, mostrano una diminuzione notevole dei casi segnalati rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente” spiegano gli autori. “L’effetto più pronunciato è stato riscontrato per il cancro della pelle, in tutte le fasce di età e tutti i gruppi di pazienti, ma è evidente per praticamente qualsiasi tipo di tumore.”

Le cause, secondo gli esperti, sono tre: innanzitutto, le persone con sintomi aspecifici di cancro (cioè sintomi così generici da poter essere attribuiti ad altri disturbi banali) hanno incontrato difficoltà a farsi visitare; in secondo luogo, il passaggio alla telemedicina ha rallentato la prescrizione dei test di controllo; terzo, gli ospedali hanno chiuso gli accessi per tutti i casi non evidentemente urgenti, riallocando le risorse alla gestione della pandemia e operando per ridurre  i rischi di infezione da COVID-19 all’interno degli ospedali.

Le campagne nazionali di screening per il tumore al seno, al colon e all’utero sono state sospese, così come è accaduto in Italia.

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Controllarsi serve, appena si può

Dalla Gran Bretagna arriva un ulteriore allarme, più generale. “I programmi di screening consentono il 5 per cento delle diagnosi di cancro ogni anno” spiega Jones. “È importante che non passi l’idea che si tratti di esami di cui si può fare a meno. Non è così. Sono stati sospesi in una situazione del tutto eccezionale, nella quale il numero di vite salvate rischiava di essere superato dal numero di vite perse per contagi evitabili. Per fortuna queste situazioni sono estremamente rare. Già ora, benché l’epidemia sia ancora attiva, le conoscenze su COVID-19 e sulla prevenzione e il trattamento di questa malattia fanno pendere la bilancia a favore della ripresa degli screening. I pazienti devono sapere che è tempo di tornare a fare i controlli.”

Secondo gli esperti britannici sono necessarie campagne di informazione per invitare i cittadini a non trascurare i sintomi di allarme e a rivolgersi nuovamente ai medici per una diagnosi tempestiva, mentre i servizi di prima diagnosi e di screening devono essere potenziati per permettere di smaltire in fretta gli arretrati.

Le misure per snellire le liste d’attesa

Il centro studi Nomisma ha calcolato, a fine maggio scorso, che sono quasi 4 milioni gli screening oncologici che dovranno essere recuperati per via della sospensione durante il lockdown. Una mole di lavoro difficile da smaltire senza un piano strategico che molte Regioni hanno già preparato. La Puglia, per esempio, ha attivato convenzioni con strutture private e liberi professionisti, ma il problema principale è la disponibilità di ambulatori e macchinari, dal momento che sale d’aspetto e macchine devono essere sanificate tra una visita e l’altra.

La Regione Lombardia, con una delibera specifica, ha fornito indicazioni simili e allungato gli orari di apertura di ambulatori e servizi pubblici.

La Campania ha calcolato che sarebbero circa 30.000 le prestazioni non effettuate da recuperare, tra visite e interventi chirurgici, anche se il maggiore centro oncologico della Regione, la Fondazione Pascale, ha annunciato di non avere liste d’attesa più lunghe del solito poiché non ha mai smesso di lavorare anche durante il lockdown: l’attesa per la chirurgia senologica è di circa 30 giorni (come prima dell’epidemia), mentre per la radioterapia sono sufficienti 48 ore.

Infine, l’Emilia-Romagna ha attivato un protocollo di “triage di fragilità”: i medici di famiglia sono invitati a valutare l’urgenza delle visite e ad assegnare a ciascun paziente un ordine di priorità, privilegiando le categorie più fragili, tra le quali gli anziani, i pazienti oncologici e i sospetti tali.

  • Daniela Ovadia