Ultimo aggiornamento: 5 aprile 2023
La ricerca di nuove cure contro il cancro non può fare a meno di approssimare con esperimenti di laboratorio ciò che accade nell’organismo malato. Esistono molti modi di fare questo, e alcuni sono piuttosto curiosi.
Un gruppo di ricercatori dell’Università della California ha cercato di riprodurre in laboratorio un tumore dell’appendice, al fine di studiarlo. Tentativi di questo genere sono chiamati in gergo modelli sperimentali. Ai molti che non sono del mestiere, può sfuggire il senso di creare modelli sperimentali. La ragione è che per ottenere risultati significativi e attendibili contro la malattia, occorre poter ricostruire in laboratorio almeno parte del tumore e delle sue interazioni con l’organismo. Nel caso del tumore dell’appendice, una malattia piuttosto rara, finora non esistevano modelli sperimentali, senza i quali è difficile progredire nelle conoscenze e sviluppare nuove terapie.
Quando si parla di modelli sperimentali, spesso ci si riferisce a topi di laboratorio nei quali si riproduce in parte la malattia umana. Tuttavia ci sono molti altri modelli utilizzati sperimentalmente: in certi casi si utilizzano specie meno comuni, come il pesce zebra, e sempre più di frequente si usano anche i cosiddetti organoidi o mini-organi.
Il tumore dell’appendice è un cancro molto raro: le statistiche dicono che colpisce una o due persone per milione di abitanti all’anno. La messa a punto di un modello sperimentale per questo tipo di neoplasia è stata ostacolata da diversi fattori: innanzitutto sono pochissimi i pazienti ed è quindi difficile ottenere campioni di tumore; inoltre le cellule dei tumori dell’appendice spesso secernono una proteina, la mucina, che forma una sostanza gelatinosa, in grado di ostacolare sia l’osservazione delle cellule al microscopio sia la loro coltura. D’altra parte, non è possibile studiare il tumore dell’appendice nel topo perché i topi non possiedono l’equivalente dell’appendice umana.
I ricercatori americani sono riusciti a realizzare una coltura tridimensionale di tessuto di tumore dell’appendice, con cui è possibile simulare la struttura di questa piccola parte dell’intestino. Dopo l’asportazione chirurgica di un tumore di questo tipo, utilizzando uno speciale strumento chiamato vibratomo, i ricercatori hanno tagliato delle sezioni spesse poco più di un foglio di carta da fotocopie. Queste sono state poste in un liquido nutriente nelle condizioni ottimali di temperatura e ossigeno per fare sopravvivere le cellule. Il vantaggio di questo approccio è che nella coltura tridimensionale sono contenuti tutti i tipi di cellule che sono presenti nel tumore, incluse le cellule immunitarie, particolarmente abbondanti nel cancro dell’appendice. Le colture così preparate sono rimaste vitali e hanno mantenuto la composizione cellulare originaria per almeno una settimana.
In precedenza, altri ricercatori avevano ottenuto colture simili per tumori come quello del pancreas, del polmone e del colon, ma questo approccio non era mai stato utilizzato con successo per il tumore dell’appendice. Le colture organotipiche (così si chiamano i prodotti di questa tecnica) permettono sia di studiare i meccanismi alla base della crescita del tumore sia di valutare i possibili effetti di farmaci, per individuare i trattamenti potenzialmente più efficaci per i pazienti, qualora la malattia non fosse limitata all’appendice ma si fosse già diffusa nel resto dell’organismo.
Un altro approccio sperimentale sempre più utilizzato in ricerca è quello degli organoidi, ossia ricostruzioni tridimensionali che permettono di approssimare e studiare le caratteristiche del tessuto o dell’organo da cui hanno origine. Gli organoidi contengono i diversi tipi di cellule dell’organo che riproducono e sembrano essere piuttosto stabili a livello di DNA e RNA, continuando perciò a esprimere le stesse proteine che erano presenti nei campioni ottenuti dai pazienti.
Per mettere a punto un organoide si parte dalle cellule del tessuto di interesse, che possono essere coltivate in una matrice proteica gelatinosa. Questa è utilizzata poiché facilita l’organizzazione spontanea delle cellule in strutture tridimensionali. La matrice è immersa in un liquido contenente fattori di crescita, sostanze che mantengono le cellule vitali e ne promuovono la moltiplicazione. Anche se a volte sono chiamati mini-organi, non bisogna immaginare che si tratti di versioni miniaturizzate di un organo reale, strutturato e funzionante, per esempio, di un intestino, un cervello. Per ora si tratta di aggregati di cellule che ne possono approssimare alcune parti, e che hanno le dimensioni di una capocchia di uno spillo.
Gli organoidi presentano alcuni vantaggi, come il fatto che possono essere generati a partire dai tessuti tumorali e da quelli sani di uno stesso paziente. Ciò può permettere confronti diretti, per esempio, riguardo all’efficacia e alla tossicità di un farmaco antitumorale. Inoltre gli organoidi si prestano particolarmente bene allo screening dei farmaci perché da poco materiale di partenza è possibile ottenerne diverse copie. Per esempio, più organoidi uguali tra loro possono essere congelati per essere utilizzati in un secondo momento.
Anche se le colture tridimensionali di cellule offrono tante possibilità, non riescono a riprodurre del tutto la complessità di un organismo completo. Prima che una nuova terapia possa essere sperimentata negli esseri umani è perciò necessario condurre studi con animali di laboratorio, anche detti in gergo "in vivo". Nella maggior parte dei casi si tratta di roditori, in particolare topi, per i quali sono stati sviluppati molti reagenti specifici (es. anticorpi) e nei quali funzionano bene molte tecniche di ingegneria genetica. Vengono però usati a volte anche altri organismi modello, come il pesce zebra.
Il pesce zebra, o zebrafish (Danio rerio), è un pesce d’acqua dolce a strisce nere, lungo 3-4 cm. In natura vive nei fiumi e nelle risaie di India, Nepal e Bangladesh. È stato identificato come un buon organismo modello per diversi motivi: ha una progenie numerosa (100-200 embrioni per schiusa); circa il 70 per cento dei geni umani (l’80 per cento se si considerano quelli che provocano malattie) ha un corrispettivo in questa specie; è facile da manipolare geneticamente; è capace di assorbire le molecole disciolte nell’acqua; è utile per lo screening di farmaci e per studiare la cancerogenicità dei composti chimici; e ha bassi costi di mantenimento. Sono inoltre state ottenute in laboratorio linee di pesce zebra trasparenti, tra cui quelle dette Casper e Crystal, che facilitano le osservazioni al microscopio.
Utilizzando questa specie, i ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora hanno recentemente dimostrato che il comportamento delle cellule tumorali è influenzato anche dalla viscosità dei fluidi extracellulari. Nei loro esperimenti, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature, i ricercatori hanno osservato che il carico meccanico imposto dall’elevata viscosità aumenta la motilità di diversi tipi di cellule e che cellule di tumore della mammella introdotte all’interno del pesce zebra migrano di più se in precedenza erano state esposte a viscosità elevata.
Questi sono solo alcuni dei tanti modelli sperimentali usati per studiare il cancro: un singolo modello può rispondere solo in parte alle domande che i ricercatori si sono posti quando lo hanno creato. Per comprendere le numerose malattie complesse ed eterogenee che stanno dentro la parola “cancro”, e sviluppare terapie ben tollerare ed efficaci, bisogna crearne e usarne molti.
Agenzia Zoe