Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
A fronte di una sempre maggiore riduzione dei fondi pubblici, cresce il finanziamento privato alla ricerca, legato soprattutto al mondo del non profit. E la qualità della ricerca italiana riesce a rimanere alta soprattutto grazie alle donazioni e al 5 per mille.
L'Italia, si sa, è decisamente indietro rispetto agli altri Paesi per quanto riguarda i finanziamenti alla ricerca: a fronte di una media OCSE del 2,23 per cento del Prodotto interno lordo (PIL), il nostro Paese si ferma all'1,27 per cento, laddove la media dei Paesi europei arriva all'1,92 e quella del gruppo ristretto dei 15 Paesi (sempre europei) più avanzati al 2,06 per cento.
Secondo l'Agenzia nazionale di valutazione della ricerca (ANVUR), che ha pubblicato il suo ultimo rapporto nello scorso mese di febbraio, l'Italia si sta comunque avvicinando alla media europea, ma il progresso non avviene per merito degli investimenti pubblici che, al contrario, continuano a subire tagli. Piuttosto si verifica per un lento ma costante aumento della ricerca privata, che comprende anche quella finanziata dagli enti non profit come AIRC.
Nonostante la scarsità di fondi, la produzione scientifica italiana è abbondante, anche se non si avvicina ancora a quella di Paesi simili al nostro per livello di sviluppo: l'Italia è ottava nel mondo per numero di pubblicazioni, con più di 1,2 milioni di studi nel periodo 1996-2014, mentre la Francia ne ha prodotte 1,5 milioni e la Germania 2,1 milioni.
Se però si valuta il numero di citazioni di ogni articolo (una misura indiretta della sua importanza per il settore di riferimento), la situazione migliora perché l'Italia ne conta in media 17,52 per articolo, non tanto lontano dal 17,95 della Francia e dal 18,5 della Germania (anche se indietro rispetto al 23,36 statunitense e al 21,03 britannico). E tutto questo lavoro è svolto da meno di 250.000 ricercatori, un numero decisamente modesto rispetto a quanto sarebbe necessario.
Per semplificare, i numeri dicono che in Italia, con meno fondi degli altri Paesi e con pochi addetti, riusciamo comunque a fare una buona ricerca scientifica, come del resto testimonia l'accoglienza riservata ai nostri ricercatori all'estero.
Ma come si giustifica questo "paradosso italiano"? Secondo gli esperti di politica della ricerca, è da attribuire al ruolo, del tutto particolare, svolto dal cosiddetto Terzo settore, cioè da quella miriade di associazioni non profit (oltre 300.000 secondo l'ultimo rapporto ISTAT, con una crescita del 28 per cento tra il 2001 e il 2011) che svolgono un compito sussidiario rispetto allo Stato, cioè colmano le evidenti lacune esistenti non solo a livello di volontariato ma anche per quanto riguarda la ricerca, dalle malattie rare - come accade, per esempio, con Telethon e l'Associazione italiana sclerosi multipla, per citare solo due delle più conosciute - alle grandi patologie ancora non sconfitte come il cancro, che è il caso di AIRC.
La ricerca finanziata dai contributi dei cittadini gode dunque di ottima salute, anche perché secondo le indagini circa otto italiani su dieci si fidano del non profit e continuano a donare direttamente e attraverso il meccanismo del 5 per mille, confortati dal fatto di vedere molti risultati concreti. Se si osservano i bilanci degli enti non profit, si vede infatti che, in media, questi investono nella ricerca di base il 28 per cento dei loro budget, nella ricerca applicata il 66,4 per cento e nello sviluppo sperimentale il 5,7 per cento. Una suddivisione quasi identica a quella dei fondi statali, a significare che le associazioni finanziano davvero gli studi, compresi quelli meno applicativi, e contribuiscono così allo sviluppo delle conoscenze, anche di quelle di base, indispensabili per arrivare alle applicazioni pratiche.
Un anno fa è stata finalmente approvata la legge delega che organizza tutto il settore del non profit (legge 106 del 6 giugno 2016). Nel momento in cui scriviamo mancano i decreti attuativi ma la speranza è che tutto avvenga come previsto, perché il testo è stato apprezzato e potrebbe davvero dare una spinta all'universo del Terzo settore: i principi enunciati rispondono infatti a molte delle istanze fiscali, normative e organizzative e di trasparenza segnalate da decenni da tutti gli operatori.
Il testo prevede infatti l'istituzione di un Registro unico nazionale delle associazioni, la stesura di un Codice del Terzo settore, il riordino di tutta la disciplina fiscale, un nuovo impulso all'impresa sociale, l'istituzione del servizio civile universale, la nascita del Consiglio nazionale del Terzo settore, l'istituzione della Fondazione Italia sociale (per favorire le donazioni private) e la riforma strutturale del 5 per mille.
Nell'autunno 2017 l'università Bocconi di Milano ha lanciato per l'anno accademico 2016/17, il Percorso formativo per manager delle imprese sociali e del non profit, mentre l'università Bicocca, sempre di Milano ha dato via al corso di Management per l'innovazione sociale nel non profit: la prospettiva dell'economia civile.
L'idea di fondo di entrambi i corsi, e di altri proposti da altre università, è che chi si prepara a gestire un'associazione non profit debba ricevere non solo le nozioni di base tipiche del management, con qualche adattamento, ma abbia bisogno di una formazione di alta specializzazione. "L'economia civile" ah ricordato l'economista Stefano Zamagni all'inaugurazione del corso della Bocconi "si basa su un principio di reciprocità di cui non si può più non tener conto".
Non è insomma più tempo di improvvisazione e, soprattutto per chi eroga fondi (come le associazioni che si occupano di ricerca) è ormai imprescindibile un approccio professionistico.
Tradotto in esempi concreti, diverse materie si ispirano alla cosiddetta "teoria della scelta pubblica" (termine mutuato dall'inglese "public choice", che significa "scelte per il pubblico"), e propongono modelli di economia che coinvolgono in modo più sistematico i cittadini nelle decisioni.
La legge 106 dovrebbe aiutare a fare più chiarezza anche sulle associazioni dei malati, le cui fonti di finanziamento non sono sempre trasparenti. È cosa ben nota che la maggior parte di esse è finanziata dall'industria dei farmaci: un dato che è frutto di una giusta e buona collaborazione con le aziende, ma è altrettanto ovvio che ricevere fondi da produttori di farmaci o di dispositivi medicali può esporre al rischio di influenze più o meno desiderabili.
Negli Stati Uniti, dove tutto ciò è favorito dalla struttura privata del sistema sanitario, la situazione sembra aver superato il limite. Lo suggerisce uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine da Ezekiel Emanuel, oncologo dell'Università della Pennsylvania, che ha analizzato i conti di 104 tra le principali associazioni di malati statunitensi che avevano avuto entrate uguali o superiori ai 7,5 milioni di dollari nel 2014, scoprendo che otto su dieci ricevono denaro da aziende, talvolta fino al 40 per cento del budget. Quello che desta più preoccupazione, tuttavia, è che quasi nessuna dichiara queste entrate: alcune rifiutano di rendere pubblici i conti, altre si nascondono dietro dichiarazioni generiche, e solo una minoranza fa sapere esattamente da chi ha avuto denaro. Secondo il National Health Council, federazione delle associazioni di pazienti, che riceve fondi per il 62 per cento dei 3,5 milioni di dollari di budget, questo non condiziona il giudizio delle associazioni, né cancella gli straordinari risultati raggiunti.
Ma secondo Emanuel, le associazioni di pazienti brillano per assenza in alcuni ambiti cruciali quali quello sui prezzi dei farmaci, e in generale hanno rapporti poco chiari coi finanziatori.
In Italia le associazioni di malati non hanno l'obbligo di dichiarare la fonte dei finanziamenti ma la situazione è analoga. Per scoprirlo, i ricercatori del Cergas Bocconi, centro che studia gli investimenti economici in sanità, ha semplicemente fatto la strada inversa, cercando le voci di finanziamento alle associazioni di malati nei bilanci delle aziende, che hanno invece l'obbligo di dire a chi donano soldi.
Agnese Codignola