Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Una vocazione artistica bloccata sul nascere da un padre timoroso per il suo futuro professionale, un'esperienza all'estero nella culla dell'immunoterapia. Oggi, nei laboratori dell'INT di Milano, Licia Rivoltini prosegue i suoi studi e li amplia al campo degli stili di vita.
Nel raccontare gli anni trascorsi a Rockville, piccola cittadina della ricca provincia americana a poca distanza da Washington, si illumina al ricordo di una delle attività che le procuravano una soddisfazione particolare: il momento dello shopping, con il carrello e una carta di credito senza limiti di spesa. Chi però pensasse a Wisteria Lane e a un episodio delle casalinghe disperate della fortunata serie televisiva, non potrebbe essere più fuori strada: per Licia Rivoltini quello era il momento per rifornire il proprio laboratorio di ricerca di tutti i materiali e dei costosi reagenti disponibili nello speciale “supermarket” riservato ai ricercatori, nel seminterrato dei National Institutes of Health di Bethesda. Laboratori di punta, che a metà degli anni novanta disponevano di moltissimi fondi di ricerca e attiravano i migliori ricercatori da tutto il mondo.
Nel tempio americano della ricerca biomedica Licia era arrivata attraverso un percorso inusuale, come inusuale era stato quello che l’aveva portata all’Istituto Tumori di via Venezian, a Milano. I suoi genitori, Rino e Annarosa, si erano trasferiti dal paesino di Vescovato, in provincia di Cremona, a metà degli anni cinquanta, trovando casa nel quartiere popolare di Corvetto, dove lei si ingegnava a far bastare lo stipendio di bancario di lui, assunto alla Cariplo, per le esigenze dei cinque figli: Licia aveva fatto il liceo classico al Berchet, uscendone con il voto di maturità più alto di tutta la classe: “Era frutto più di ottima memoria e buona parlantina che di studio” ammette con il sorriso. “Io all’epoca avevo mille interessi, dal disegno alla pittura, dalla lettura al cinema, tanto che mio zio Luisito, un prete straordinario, mi prendeva in giro dicendo che avevo sempre troppi pentolini sul fuoco.”
Erano gli anni delle contestazioni studentesche di fine anni settanta, e al momento di scegliere la facoltà universitaria il suo desiderio di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di
Brera trovò l’opposizione del papà, preoccupato da un ambiente dipinto come “senza regole” e con pochi sbocchi lavorativi: “Fino all’ultimo giorno fui indecisa, poi scelsi medicina, dando retta a mio padre che aveva usato anche un argomento molto concreto: ‘Puoi usare i libri di tua sorella’, disse”. La sorella Paola, maggiore di pochi anni, sarebbe infatti diventata ortopedico, mentre Licia capì quasi subito che la vita in corsia non faceva per lei: “È bastato andare a trovare mio fratello più piccolo, ricoverato d’urgenza per uno pneumotorace, per svenire alla vista della cannula e farmi in famiglia la fama di quella che non ha un gran coraggio” racconta ridendo.
Un bel po’ di coraggio le era servito per uscire dal guscio, o meglio dal pesante busto indossato per ben dieci anni, tra gli 8 e i 18, per un grave problema di scoliosi: una sorta di corazza che limitava i suoi movimenti influenzando pesantemente tutte le relazioni sociali, quando studiava chitarra classica alla Civica Scuola di Musica come quando frequentava il gruppo scout. “Quando tolsi il busto mi sentivo un mollusco, e andai molto in palestra per tirare fuori la forza a dispetto di quell’handicap macroscopico, scoprendo di avere la capacità di non demordere” riflette oggi. “Per molti anni ho sognato di averlo ancora indosso.”
Quella tenacia fu utile quando si trovò ad affrontare la frustrazione per una tesi sperimentale in farmacologia che non le piaceva: “Avevo già maturato la convinzione che avrei fatto ricerca, ma l’idea di studiare una proteina nel cervello dei ratti non mi appassionava. Sentivo il bisogno di dedicarmi a una ricerca con prospettive di applicazione”.
Suo cugino, che da poco lavorava all’Istituto Tumori di via Venezian, le suggerì di andare a parlare con Maria Ines Colnaghi (che sarebbe poi diventata per molti anni direttore scientifico di AIRC) o con Giorgio Parmiani. Lei decise di chiedere un colloquio a Colnaghi, ma si perse nei corridoi dell’Istituto, imbattendosi per caso in Parmiani. “Ebbi una bella discussione con lui, e concordai una tesi sull’immunologia dei tumori”. Ora Licia cupa il piccolo studio che era di Parmiani.
Dopo la prima borsa di studio ottenne di iscriversi alla specializzazione triennale in oncologia medica, con l’accordo di occuparsi solo di ricerca. Si dedicò all’interleuchina 2, primo fattore immunomodulante sperimentato in clinica: “Parmiani pose però una condizione: dovevo essere disponibile ad andare all’estero”.
Dopo il concorso con cui nel 1991 ottenne un posto di ruolo nel dipartimento di ricerca dell’INT, si presentò la possibilità di andare in America nel centro diretto dal pioniere dell’immunoterapia Steven Rosenberg. In quel periodo una scienziata dello stesso istituto, Suzanne Topalian cercava ricercatori interessati a una borsa di studio sul melanoma. Il laboratorio dei National Institutes of Health di Bethesda rappresentava una meta ambitissima per i giovani ricercatori di tutto il mondo, per cui furono in molti a stupirsi della sua candidatura: “Scoprii poi che quell’ottima ricercatrice aveva un carattere molto difficile e, d’altra parte, cercava una competenza nella coltura di cellule umane in laboratorio che Parmiani aveva affinato come nessun altro al mondo”.
Poco più che trentenne, Licia corona nel settembre del 1992 il sogno di trasferirsi nel laboratorio più ricco degli Stati Uniti, nell’epoca d’oro della ricerca sull’immunologia del cancro. Con lei prende il volo il compagno di vita Enzo, anche lui medico e anche lui innamorato della ricerca, che lascia il posto di dottorando a Milano, riuscendo ben presto a ottenerne uno nel centro di ricerca di Fort Dietrich, non lontano dalla loro casetta di Rockville con gli scoiattoli che scorrazzano in giardino.
Quando la convivenza nel laboratorio di Topalian diventa insostenibile, lei cosi fa avanti con Rosenberg e ottiene di lavorare direttamente con lui, e con lui firma nel 1994 un articolo che a oggi ha avuto quasi mille citazioni.
L’anno successivo, in una giornata di inizio gennaio con 15 gradi sottozero si sposa con Enzo, in una Washington coperta di neve, nella chiesetta dove è sepolto lo scrittore Francis Scott Fitzgerald. A sposarli l’amatissimo zio Luisito, prete con due lauree che in gioventù ha fatto l’operaio, l’infermiere e il benzinaio, e che grazie alla nipote prende l’aereo per la prima volta.
Nel 1996 Parmiani la richiama a Milano, dove per qualche tempo fatica a riadattarsi: “L’enorme disponibilità di finanziamenti mi aveva permesso di seguire l’approccio americano, che teorizzava di mettere alla prova tutte le ipotesi, ma al ritorno ho dovuto riacquisire la mentalità di chi ha fondi limitati e deve scegliere con cura, analisi e ragionamento le ipotesi da testare”.
Anche in questo senso, la sua duplice anima di medico e di ricercatore le offre una visuale particolare, meno dettagliata di quella di chi ha una sola competenza, ma con una preziosa
visione d’insieme: “Negli ultimi anni AIRC ha investito molto per creare la figura del medico-ricercatore: sono convinta che sia la strada giusta, ma secondo me occorre fare ancora di più per incoraggiare i clinici a fare un’esperienza prolungata in laboratorio, perché solo così si impara a conoscere pregi e limiti delle tecniche e la complessità di certi approcci. Spesso il medico immagina che in laboratorio si possano fare cose che in concreto sono irrealizzabili, mentre dall’altra parte il biologo ha una visione diversa rispetto a chi conosce
il paziente”.
Nel 1997 nasce il figlio Zeno; Enzo se ne occupa moltissimo, permettendo a Licia anche di viaggiare ogni volta che le sue ricerche – spesso finanziate da AIRC – lo richiedono, fino a quando Enzo si ammala di cancro all’intestino nel 2008. La mentalità del ricercatore la inganna (“hai l’intima convinzione che una qualche soluzione si troverà”), e quando in pochi anni il cancro si porta via la mamma, l’amato zio e poi il marito che era stato sostegno e compagno di una vita, frustrazione e impotenza prendono il sopravvento per un po’: “Avevo la sensazione che quello che facevo non servisse a niente” ricorda. “Ma per fortuna ho avuto un grande supporto da parte del mio gruppo di ricerca, attualmente composto per intero da donne”. Oggi passa molto tempo visitando musei e città d’arte con Zeno, che, con la benedizione di entrambi i genitori, ha fatto il liceo artistico coltivando l’amore per il disegno, la pittura e per la cultura giapponese: “Di recente abbiamo visto insieme un’intera rassegna di cinema giapponese d’autore degli anni trenta e quaranta, in originale e con i sottotitoli, e quest’estate abbiamo trascorso insieme un mese nel Nord del Giappone, ritrovandoci in un paesino in cui nessuno parlava inglese. È stata una bella sfida”.
Lui da un anno studia lingue e culture dell’Asia all’Università di Ca’ Foscari, a Venezia, e coltiva l’idea di andare un giorno a vivere nel paese del Sol Levante: “Se andrà in Giappone
potrei decidere di seguirlo, scegliendo però una città diversa. Magari potrei aprire un ristorante italiano” dice, lasciando immaginare un fornello coperto di pentolini, con lei affaccendata a farli roteare con maestria.
Oggi la struttura diretta da Licia Rivoltini all'Istituto Tumori di Milano lavora per identificare nuovi biomarcatori che permettano di individuare con anticipo quali pazienti beneficeranno dell'immunoterapia, così da risparmiare agli altri pazienti gli effetti collaterali, e in prospettiva un'enorme spesa da parte del sistema sanitario nazionale. L'ultimo studio finanziato da AIRC apre invece un altro filone, e punta a verificare l'effetto che la cosiddetta dieta mima-digiuno e l'attività fisica moderata hanno sulla capacità del sistema immunitario dei malati di melanoma di recuperare dopo l'operazione di rimozione del tumore iniziale, e nella prevenzione delle recidive: “Studio molto più oggi di quanto non facessi a scuola” rivendica Rivoltini. E aggiunge in tono scherzoso: “Per coerenza ho anche deciso di iniziare a fare più esercizio fisico, e ho rimesso in funzione la bicicletta”.
Fabio Turone