Ultimo aggiornamento: 9 ottobre 2023
Anticorpi coniugati, immunoterapia, chemioterapia a dosi sempre più basse. La ricerca non si ferma, per migliorare ancora la prognosi della forma di cancro maggiormente diffusa.
Un costante lavoro di cesello, per migliorare sempre più risultati già ottimi. Lo sforzo che la comunità scientifica continua a profondere per migliorare le prospettive di cura del tumore al seno ha le sembianze della fatica che uno scalatore compie ogni qual volta decide di raggiungere una vetta sempre più alta. Un lavoro sì di perfezionamento, ma indispensabile se si considerano i seguenti aspetti: il tumore al seno è la più diffusa forma di cancro (quasi 56.000 diagnosi in Italia nel 2022), ogni anno colpisce quasi 11.000 under 40, ha un tasso di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi dell’88 per cento (da far crescere ancora, dunque) e può ripresentarsi fino a vent’anni dopo la diagnosi. Numeri che aiutano a capire perché Fondazione AIRC destina una quota consistente di risorse alla comprensione dei meccanismi di base e allo sviluppo di nuove terapie per il tumore al seno. Con risultati pronti a essere messi a disposizione delle pazienti.
Oggi gran parte delle attenzioni che i ricercatori rivolgono al cancro della mammella sono concentrate sul sottotipo triplo negativo (tra il 15 e il 20 per cento dei nuovi casi) e sul trattamento della malattia metastatica (indipendentemente dalle sue caratteristiche biologiche). Il momento storico è significativo. “Negli ultimi cinque anni abbiamo registrato una rivoluzione diffusa, che ha riguardato tutti gli stadi e le tipologie di tumore al seno" dichiara Giampaolo Bianchini, responsabile dell’Unità tumori della mammella dell’IRCCS ospedale San Raffaele di Milano. "La prospettiva di vita per una donna con una malattia metastatica è quasi triplicata. Stiamo continuando a comprendere le potenzialità dell’immunoterapia nel trattamento del tumore al seno triplo negativo. Inoltre ci siamo resi conto che 4 pazienti su 10 con questo sottotipo di malattia hanno un’espressione del recettore Her2 bassa, ma non assente. Questo potrebbe permetterci di offrire presto loro un trattamento con anticorpi anti Her2 coniugati.” Questa opportunità oggi viene valutata in associazione alla chemioterapia nelle pazienti a più alto rischio di recidiva, ma in futuro potrebbe diventare un pilastro della terapia della malattia triplo negativa.
Un altro dei meriti della ricerca è aver compreso che l’immunoterapia può avere uno spazio importante anche nella terapia del cancro al seno. Almeno per la forma più grave (il tumore triplo negativo, appunto), fino a pochi anni fa quasi impossibile da curare. “Questa è una forma di neoplasia che presenta un numero di mutazioni elevato e quindi ha maggiori possibilità di essere riconosciuta e aggredita dal sistema immunitario” aggiunge Bianchini. Caratteristiche che la collocano a metà strada tra gli altri tipi di cancro al seno (con recettori ormonali o Her2 positivi) e quei tumori in cui le mutazioni sono frutto dell’azione di agenti esogeni e che rispondono meglio all’immunoterapia. Tra questi, il melanoma, il tumore del polmone e quelli del distretto testa-collo. Si spiega così la necessità di aggiungere la chemioterapia al trattamento con gli inibitori dei checkpoint immunitari (pembrolizumab e atezolizumab). “A livello locale, la chemioterapia prepara il terreno, favorendo la concentrazione di linfociti e macrofagi nella zona della malattia.” Un effetto modulante che oggi è alla base dell’approccio alla cura dei casi più avanzati di malattia, ma che potrebbe presto essere offerta anche alle donne con un tumore triplo negativo in fase più precoce. Ovvero: dopo, se non pure prima, dell’intervento chirurgico, per ridurre il rischio di recidiva e formazione di metastasi.
Come detto in apertura d'articolo, la ricerca sta cercando nuovi approcci terapeutici per tutte le forme metastatiche di cancro al seno, un problema che oggi riguarda quasi 40.000 donne italiane. La maggior parte dei tumori della mammella metastatici presentano i recettori ormonali (il 70 per cento delle nuove diagnosi) o sono Her2 positivi. Per queste tipologie di cancro esistono già trattamenti efficaci (chemioterapici, ormonoterapia e anticorpi monoclonali), ma ci sono due insidie cui far fronte: da un lato il tumore potrebbe sviluppare una resistenza alle terapie; dall'altro, può ripresentarsi anche a distanza di anni. “L’introduzione degli inibitori delle cicline e quella prossima dei degradatori selettivi del recettore degli estrogeni orali sono novità significative, destinate a diventare un supporto alla terapia ormonale per le donne con una malattia metastatica” afferma Lucia Del Mastro, che dirige l’Unità operativa complessa di oncologia medica e la struttura di sviluppo terapie innovative dell’IRCCS Policlinico San Martino di Genova.
Ma l’obiettivo è ancora più ambizioso. “Stiamo cercando di verificare se attraverso un prelievo di sangue sia possibile rilevare la presenza della mutazione del gene che codifica per il recettore degli estrogeni" precisa la specialista, da anni sostenuta da Fondazione AIRC e nel 2022 insignita del premio Guido Venosta in occasione dei Giorni della Ricerca. "In questo modo potremmo individuare le donne a maggior rischio di sviluppare una resistenza alla terapia ormonale fin dalla diagnosi. Per poi trattarle subito con questi nuovi farmaci”. Di questa strategia di cura possono far parte anche gli anticorpi coniugati: nati per trattare il tumore al seno triplo negativo e quello Her2 positivo, si sono già dimostrati efficaci anche nelle forme che, pur positive ai recettori ormonali, sono più aggressive.
La chemioterapia rimane fondamentale per attenuare il rischio di recidiva di un tumore al seno. In alcuni casi però potrebbe essere possibile ridurre le dosi mantenendo invariata l'efficacia. La conferma, nel caso dei tumori Her2 positivi a basso rischio, è giunta da uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet Oncology, che ha dimostrato come ridurre la chemio a tre mesi non abbia un impatto sulla sopravvivenza a dieci anni (nello studio pari al 94,3 per cento).
Qualcosa di simile è stato registrato anche nella terapia antiormonale con exemestane (in questo caso si parla di tumori ormonosensibili) seguita da donne in menopausa. È stato infatti dimostrato che assumere tre compresse settimanali di questo farmaco prima dell’intervento chirurgico riduce i livelli dell’ormone estradiolo quanto l’assunzione orale giornaliera. Questi dati andranno certamente confermati su una scala più ampia. “L’obiettivo" conclude Dario Trapani, oncologo dell’Unità sviluppo di nuovi farmaci per terapie innovative dell’Istituto europeo di oncologia "è mettere a punto un metodo per disegnare studi che valutino l’efficacia di una riduzione delle terapie per tutti i tipi di tumore, in modo da ridurre la tossicità dei trattamenti oncologici.”
Fabio Di Todaro