Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
La leucemia a cellule capellute (LCC) (o tricoleucemia) è una forma di cancro del sangue rara e a crescita molto lenta causata dalla trasformazione tumorale dei linfociti B.
Con un articolo sulla rivista Blood, il gruppo di ricerca guidato dall’ematologa di origine peruviana Bertha Bouroncle Pereny descrive per la prima volta un sottotipo di leucemia chiamato “a cellule capellute” per via della presenza di estroflessioni della membrana cellulare dei linfociti B tumorali. Al microscopio le cellule sembrano ricoperte di una corta peluria. Si tratta di una forma rara, che rappresenta meno del 2 per cento di tutte le leucemie.
La leucemia a cellule capellute viene all’epoca trattata con interferone, un farmaco che induce una risposta parziale nel 40-80 per cento dei pazienti.
Alcuni studi dimostrano che i cosiddetti analoghi dei nucleosidi (cladribina e pentostatina) sono in grado di indurre una remissione della malattia lunga e duratura, pur non permettendo una guarigione completa.
Con un articolo pubblicato su Nature, la genetista britannica Helen Davies e i suoi collaboratori tracciano la storia del gene BRAF, a cui hanno dedicato anni di ricerche. Si tratta di un oncogene (cioè un gene che favorisce la proliferazione dei tumori) che appare mutato in molti tipi di neoplasie e in particolare nel 66 per cento dei melanomi.
Il primo farmaco mirato contro BRAF, il vemurafenib, arriva alle fasi finali della sperimentazione umana in pazienti con melanoma. Dopo questo primo inibitore di BRAF, altri entrano nella pratica clinica. Tutti agiscono bloccando la crescita cellulare.
Grazie a un progetto di ricerca sostenuto da AIRC, Enrico Tiacci e Brunangelo Falini, dell’Università di Perugia, scoprono che tutte le cellule tumorali della leucemia a cellule capellute sono portatrici di una specifica mutazione del gene BRAF, che può quindi diventare il bersaglio di una terapia mirata. I risultati della ricerca sono pubblicati sul New England Journal of Medicine.
Per il trattamento della leucemia a cellule capellute con inibitori di BRAF sono stati condotti diversi studi clinici, alcuni dei quali anche da parte del gruppo di Perugia che aveva scoperto il ruolo dell’oncogene e che per primo ha provato il vemurafenib in questi pazienti, ottenendo una remissione stabile e duratura.
Agenzia Zoe