Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Grande amante del tennis e della competizione, Anna Mondino ha portato le sue doti di sportiva nella ricerca scientifica e nell’immunoterapia.
Competenza, competitività e rigore, conditi con ottimismo, resilienza e capacità di guardarsi intorno, andando oltre il proprio orticello ultraspecialistico”. Sono queste le caratteristiche di un buon ricercatore per Anna Mondino, oggi responsabile dell’Unità di attivazione linfocitaria della Divisione di immunologia, trapianti e malattie infettive dell’Ospedale San Raffaele di Milano. Qui studia come rinvigorire la risposta del sistema immunitario affinché possa svolgere al meglio i suoi compiti, tra cui quello di riconoscere e combattere le cellule maligne bloccando lo sviluppo di un tumore. La sua storia personale conferma che alcune qualità si sviluppano in casa, fin da piccoli, e altre invece devono essere perfezionate attraverso lo studio e attività che hanno apparentemente molto poco a che fare con la scienza, come lo sport o il volontariato.
Grande sportiva come il papà, pur avendo ridotto i tornei e ridimensionato i sogni di gloria di gioventù, non ha mai abbandonato il campo da tennis. Una passione che le è stata e le è utile tutti i giorni. “L’attività agonistica insegna l’amore per le sfide, e sviluppa la resilienza per superare la sconfitta e cercare la strategia giusta per raggiungere il risultato” spiega. “È quanto di più utile possa esserci per un ricercatore, perché in laboratorio non sempre va tutto per il verso giusto e spesso niente sembra funzionare.” Ci vogliono tenacia e capacità di tenere duro senza abbandonare la speranza di trovare la risposta alla domanda sperimentale, perché la natura risponde sempre. “Lo sport di squadra insegna inoltre a valorizzare il risultato del singolo per un traguardo comune. Nella scienza ognuno mette un pezzo di un puzzle, che solo nel contesto giusto acquista di significato.”
Una marcia in più viene anche da un’altra attività che Anna Mondino cerca sempre nel curriculum dei giovani ricercatori: il volontariato, che anche lei ha sperimentato in diversi contesti. “Insegna a guardarsi intorno a tutto campo. Nella vita di laboratorio e nella scienza questo è cruciale: quante nuove idee hanno avuto origine da menti attente, capaci di cogliere suggerimenti di altri specialisti e di avviare un dialogo tra discipline!”
Di antica famiglia torinese, numerosa e molto tradizionale, è la prima di cinque figli. Pur essendo molto schiva, “la palestra quotidiana in casa” le ha insegnato a competere per l’attenzione o per l’ultima porzione di dolce e, contemporaneamente, a capire quando è opportuno lasciar correre. La mamma, “intelligente conoscitrice dell’animo umano, è una professionista della famiglia, capace di prestare attenzione ai dettagli e di intuire le inclinazioni individuali di figli e nipoti”, ci racconta. È stata lei a regalarle Cacciatori di microbi, un classico del 1926 nel quale il batteriologo statunitense Paul de Kruif ricostruisce le scoperte su germi e malattie infettive attraverso le vicende di undici scienziati, tra cui Lazzaro Spallanzani e Louis Pasteur. “Ero incerta tra medicina, matematica e biologia, che poi scelsi perché volevo fare ricerca, ispirata anche dai racconti di Konrad Lorenz nel suo Anello di Re Salomone.”
Trasmettere alle nuove generazioni di ricercatori gli insegnamenti ricevuti da genitori e maestri, restituendo al suo Paese un po’ di quello che ha ricevuto grazie “al nostro sistema educativo gratuito e all’eccellente sistema universitario italiano”, è una delle cose cui tiene di più. Per questo si impegna nelle iniziative di comunicazione del suo istituto e di AIRC e non rifiuta mai gli inviti a incontri con gli studenti, ai quali suggerisce di “farsi trovare preparati agli appuntamenti con il destino”. L’esempio a lei più caro è quello che riguarda proprio AIRC, con cui sente di avere un rapporto speciale (dopotutto, scherza, “siamo nate nello stesso anno”): “Ho sempre con me degli articoli da leggere per sfruttare anche i tempi morti. Proprio un lavoro di Giuseppe Della Porta che avevo letto nel viaggio in treno verso Milano, dove si teneva il colloquio per l’assegnazione di una borsa AIRC, fu oggetto di una domanda della Commissione. Il grant fu mio. Una bella fortuna” racconta con understatement tipicamente sabaudo. Il secondo consiglio è “fate domande, ai seminari e ai colleghi, perché ciò aiuterà in primo luogo voi stessi a riflettere e gli altri a notarvi”. Infine, scoraggiarsi non serve: “Abbiate fiducia: la risposta si troverà, il finanziamento arriverà. In caso contrario, non arrendetevi e, se siete sicuri di voi stessi, ribattete. Così facendo, io una volta sono riuscita a trasformare un rifiuto in un’accettazione”.
Al secondo anno di studi in biologia all’Università di Torino entra già in tesi nel laboratorio di Paolo Comoglio, sotto la supervisione di Giovanni Gaudino, che le trasmette la passione per la biologia cellulare e il rigore nel metodo. Il laboratorio è frequentato anche da un giovane studente di chimica, Carlo, con il quale scopre di avere molto in comune, oltre alla scienza e alla passione per il tennis. “Dopo la laurea, mi chiese di seguirlo negli USA e accettai, ma a una condizione… di poter completare il dottorato lì e che diventasse
mio marito.” Al matrimonio, nel giugno 1991, seguono mesi di separazioni e ricongiungimenti: “In dicembre l’ho raggiunto per frequentare l’ultimo anno di dottorato alla New York University, ma dopo poco lui è rientrato in Italia per poi ripartire per il Minnesota. Ci siamo quindi dati appuntamento a Minneapolis, dove nel 1993 ho iniziato un periodo di post-dottorato. Ai giovani dico: non abbiate paura di lontananza e solitudine e seguite i vostri sogni, accettando qualche compromesso”.
“Lavorare nel laboratorio di Joseph Schlessinger, al tempo a New York e oggi alla Yale University, è stata un’esperienza che mi ha cambiato professionalmente e personalmente” racconta. Ma è nei cinque anni a Minneapolis che ha avuto modo di approfondire l’immunologia, disciplina che tanto l’aveva affascinata durante gli studi.
“Dopo una ricerca su Medline, ho contattato Marc Jenkins, allora giovane professore, oggi direttore del centro di immunologia, scienziato determinato e appassionato, convinto sostenitore di rettitudine e condivisione della conoscenza: ci diceva ‘vai ai congressi e parla, se ti rubano l’idea significa che era veramente buona’.” In Minnesota nascono Marco e Giulia, oggi di 23 anni e 22 anni, i suoi migliori “esperimenti non riproducibili e senza controlli!”. Congedi di maternità brevi (solo 8 e 6 settimane) le consentono di non interrompere gli esperimenti. “La chiave per conciliare laboratorio e famiglia è nuovamente saper accettare compromessi, e avere supporto, sia a casa che in laboratorio. Mio marito mi ha aiutato molto, e nel Minnesota c’era molto rispetto per le dinamiche famigliari, per esempio evitando di organizzare riunioni la sera.”
In Italia ritorna senza alcun appoggio. “Ho avanzato richiesta per un finanziamento AIRC, un New Unit Start up Grant, rivolgendomi a Francesco Blasi e al San Raffaele come istituto ospitante” ricorda. “Qui c’era già un programma di immunobioterapia e terapia genica dei tumori e un ambiente ideale. Ho ritrovato l’America e oggi, in quest’ambito, c’è un team di ricercatori molto competitivi a livello internazionale e dal forte spirito di collaborazione.” Le sue competenze di immunologia, biologia cellulare e oncologia molecolare le permettono di studiare i segnali che regolano il comportamento dei linfociti T, al fine di modificarli geneticamente e migliorarne la funzionalità in protocolli di terapia cellulare adottiva. La crescita di tumori, infatti, provoca anche l’attivazione, la proliferazione e il differenziamento di linfociti specifici: caratterizzare questo aspetto della risposta immunitaria significa armare l’organismo nel modo più preciso e personalizzato possibile. “L’idea è di fare dei super linfociti T in grado di riconoscere le cellule tumorali del paziente e indurne il rigetto.” Il suo laboratorio è tutto al femminile, e conta di una tecnica di laboratorio, “Super-Vero”, Veronica Basso, con lei fin dall’inizio, una post doc, una fellow e due tesiste. “Voglio riconoscere però il lavoro di tutti i membri del lab 17, che ringrazio per la fiducia e di cui sono molto fiera. Tanti di loro hanno ora posizioni di prestigio in giro per il mondo.”
Il suo ultimo finanziamento quinquennale ottenuto da AIRC riguarda la combinazione della terapia cellulare che sta sviluppando con la radioterapia localizzata. “Per portare la terapia cellulare nei tumori solidi è necessario far entrare i linfociti T nel tumore: cerco strategie per scardinare il chiavistello e aprire il cancello di ingresso alle cellule immunitarie. Un aiuto potrebbe venire proprio dalla radioterapia localizzata che, oltre a indurre morte cellulare, modifica il modo in cui i vasi portano il sangue, e quindi anche i linfociti, al tumore.” Il progetto intende studiare come la radioterapia modifichi la risposta immunitaria contro il tumore, cercando prove nel sangue dei pazienti con tumore alla prostata. “Nei topi è molto chiaro: una tale modificazione immunologica ha un effetto anche sulle metastasi. Si è visto che se si irradia il tumore primario, la risposta immunitaria può bastare a eliminare anche le metastasi.”
Ora tutta la famiglia vive a Milano: Carlo lavora ancora per la società di diagnostica biomedicale per la quale hanno deciso di lasciare il Minnesota e di cui nel frattempo è diventato amministratore delegato, e fa il pendolare tra Milano e Torino; Marco studia economia e Giulia architettura. “Nonostante anche mio marito sia un entusiasta sostenitore della ricerca scientifica come strumento di conoscenza, hanno scelto strade diverse.” L’idea di ripartire non la spaventa: “Casa è là dove ci sono la famiglia e le tue passioni, che possono spostarsi: per me l’importante è spostarli tutti insieme. Io ho sempre la valigia pronta sotto il letto”.
La terapia cellulare adottiva con linfociti T è una strategia che mira a potenziare la risposta immunitaria contro i tumori. I linfociti T normalmente difendono l’organismo da eventuali agenti esterni, colpendo in modo selettivo bersagli specifici che individuano grazie a recettori posti sulla loro superficie. Rispetto a virus e batteri, le cellule tumorali possono però costituire una sfida più ardua, perché derivano da cellule dell’organismo stesso che normalmente i linfociti imparano a ignorare. Se istruiti e armati a dovere però, grazie per esempio a manipolazioni genetiche, una volta reinseriti nel paziente i linfociti possono riconoscere le cellule neoplastiche e mediarne il rigetto. Sono questi alcuni dei progressi di quella che Mondino chiama “rivoluzione culturale”, l’immunoterapia dei tumori che oggi è diventata l’approccio più promettente contro il cancro. “Quando ho iniziato, pochi pensavano potesse essere utile contro i tumori. Con la scoperta dei checkpoint immunologici, cioè di alcuni meccanismi chiave del processo di attivazione dei linfociti, c’è stata un’importante conversione all’immunoterapia anche da parte di chi si occupava di approcci più convenzionali, come la chemio o la radioterapia.” La creazione di “super linfociti” rappresenta oggi un’interessante frontiera della ricerca biomedica.
Nicla Panciera