Ultimo aggiornamento: 3 marzo 2022
Dati raccolti in esemplari appartenenti a quasi 200 specie diverse confermano quello che è noto come “paradosso di Peto” e suggeriscono che la dieta possa essere un fattore significativo.
Uno studio i cui risultati sono stati appena pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Nature aggiorna e arricchisce le nostre conoscenze sul rischio di morire di cancro tra i mammiferi. I dati ottenuti in questo tipo di ricerche non sono solo oggetto di curiosità, ma possono fornire informazioni sui meccanismi naturali che contrastano o favoriscono l’insorgenza dei tumori, meccanismi che potrebbero essere sfruttati per prevenire e curare la malattia anche negli esseri umani. Inoltre conoscere meglio la suscettibilità degli altri mammiferi al cancro è utile per prendere maggiore cura degli esseri viventi con cui condividiamo il pianeta.
All’origine di ogni tumore c’è una cellula che accumula mutazioni nel proprio DNA e inizia a moltiplicarsi senza freni. Si potrebbe pensare che la probabilità di andare incontro a un tumore sia maggiore per un animale di grandi dimensioni, in quanto contiene più cellule che possono “impazzire” rispetto a un animale più piccolo. Inoltre i grandi animali generalmente vivono più a lungo, rispetto ai più piccoli, e hanno quindi più tempo per accumulare i danni al DNA responsabili della trasformazione maligna.
I dati ci dicono però che non esiste alcun legame tra le dimensioni e la longevità tipici di una specie animale, e il rischio di ammalarsi di cancro. Questa osservazione, fatta per la prima volta dall’epidemiologo britannico Sir Richard Peto alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, è nota come “paradosso di Peto”. Lo scienziato aveva notato che il rischio di sviluppare un tumore per un topo non è molto diverso da quello di un essere umano, nonostante l’animaletto abbia un numero di cellule 1.000 volte più basso di quello tipico della nostra specie e nonostante la sua durata media della vita sia oltre 30 volte inferiore alla nostra. Altri scienziati hanno poi condotto studi di conferma, basati però su pochi dati, non sempre omogenei tra loro.
Gli autori dell’articolo di Nature hanno invece analizzato una grossa mole di dati. Le informazioni riguardavano 110.148 mammiferi adulti appartenenti a 191 specie diverse, ospitati in vari zoo, strutture che oggi fungono spesso anche da centri di ricerca scientifica in veterinaria ed etologia. I dati sono stati raccolti nel tempo nel Zoological Information Management System, un database gestito dalla organizzazione internazionale non profit “Species360”. I ricercatori hanno calcolato il rischio di morte per cancro degli animali di ogni specie annoverata nel database, tra quelli per i cui decessi erano disponibili i referti di anatomia patologica. Hanno così osservato una grande variabilità tra le cause di morte e notato che in più di una specie su cinque, tra quelle considerate, il rischio relativo di morte per cancro era maggiore di circa il 10 per cento.
Le rigorose analisi statistiche condotte usando questo ampio campione di animali hanno anche confermato il paradosso biologico descritto da Peto: il rischio di morte per cancro non è proporzionale alle dimensioni e all’aspettativa di vita tipici di una specie. Gli scienziati ritengono che, nel corso dell’evoluzione, l’aumento progressivo delle dimensioni corporali e l’allungamento della vita media di alcune specie si siano accompagnati allo sviluppo di meccanismi protettivi contro l’accumulo di mutazioni dannose e dunque contro la formazione di tumori.
Gli autori dell’articolo hanno osservato che la morte associata ai tumori è particolarmente frequente tra alcuni tipi di mammiferi: in alcune specie più del 20-40 per cento della popolazione studiata è morta a causa del cancro. Questo dato potrebbe essere associato a forti perturbazioni ambientali capaci di favorire la malattia, che va perciò considerata una minaccia alla salute animale oltre che a quella umana.
Dalle analisi statistiche è emerso che il rischio di morte per cancro era più alto per i mammiferi appartenenti all’ordine dei carnivori, rispetto ai primati o agli artiodattili (mammiferi ungulati che comprendono, tra gli altri, i cervi). Tra i carnivori vi sono diverse famiglie di mammiferi, tra cui i felidi (per esempio leoni, tigri, gatti), i canidi (lupi, volpi, cani), gli ursidi (orsi, procioni), ma anche i pinnipedi (leoni marini). A dispetto del nome, i carnivori non si nutrono tutti esclusivamente di carne: alcuni sono onnivori, altri, come il panda gigante, sono erbivori.
Tra le possibili spiegazioni della maggiore suscettibilità al cancro dei carnivori, i ricercatori hanno ipotizzato potessero esserci l’uso di contraccettivi ormonali e il posticipo delle gravidanze tipici degli animali ospitati negli zoo. Tuttavia, l’eccesso di rischio non era presente solo negli esemplari di sesso femminile, come ci si sarebbe aspettato. Se i fattori ormonali hanno un ruolo, non bastano perciò a giustificare il maggior rischio di cancro nei carnivori.
Il secondo fattore che è stato preso in considerazione è l'alimentazione. La dieta dei carnivori è ricca di grassi e povera di fibre, e questi animali, essendo in cima alla catena alimentare, sono dunque esposti alle sostanze nocive che si sono accumulate nel corpo degli esseri di cui si cibano. Mangiare carne cruda espone inoltre al rischio di introdurre microorganismi capaci di indurre tumori.
Entrando più nello specifico, i ricercatori hanno riscontrato che il rischio di morire di cancro era significativamente più alto per i mammiferi che mangiano spesso altri mammiferi, rispetto a quelli che li consumano saltuariamente o che non se ne nutrono. La frequenza con cui i mammiferi consumano altre prede (per esempio pesci, rettili, uccelli) non sembrerebbe invece avere rilevanza. I ricercatori ritengono che se fosse coinvolto qualche microrganismo patogeno, la trasmissione da mammifero a mammifero sarebbe più probabile rispetto a quella da un’altra specie animale.
Una spiegazione alternativa dell’aumentato rischio di morte per cancro negli animali ad alimentazione più a base di carne potrebbe risiedere nella composizione del microbiota intestinale, l’insieme dei microorganismi che colonizzano il canale digerente. Gli animali studiati vivevano in cattività, di conseguenza non è possibile escludere che per la loro salute abbiano avuto un ruolo anche l’attività fisica limitata o qualche altra condizione “artificiale” imposta dagli esseri umani. Per questo motivo gli autori della ricerca suggeriscono di considerare con cautela l’effetto del consumo di carne sul rischio di cancro e si augurano che questo argomento possa essere approfondito studiando il rischio di morte per cancro anche in popolazioni animali selvatiche vissute in natura.
Agenzia ZOE