Ultimo aggiornamento: 6 ottobre 2020
Una storia di successo nella lotta contro un’infezione virale, che è partita dall’identificazione dell’agente infettivo e dalla messa a punto del test diagnostico, ed è infine approdata allo sviluppo di una cura efficace. Un buon auspicio per l’attuale pandemia virale.
In epoca di pandemia, il Nobel per la medicina o la fisiologia non poteva che andare alla ricerca sui virus. E infatti sono stati premiati due ricercatori statunitensi, Harvey J. Alter e Charles M. Rice, e un ricercatore britannico, Michael Houghton, da tempo emigrato in Canada.
Harvey J. Alter è un clinico che ha avuto il merito di studiare alcune epatiti trasmesse da trasfusioni di sangue che non sembravano dovute ai virus dell’epatite allora conosciuti (ovvero quelli dell’epatite A e B). Sua la dimostrazione, nel 1988, dell’esistenza di un terzo virus molto difficile da isolare, chiamato virus dell’epatite C o HCV e molto più subdolo e pericoloso per la capacità di dare una malattia cronica. È stato invece Michael Houghton a dimostrare, in seguito, che le epatiti croniche potevano dipendere dalla presenza stabile del virus nell’organismo incapace di combattere del tutto la malattia. Infine Charles M. Rice ha scoperto che HCV è da solo in grado di indurre l’epatite, mentre la prima ipotesi avanzata da altri scienziati era che fosse semplicemente responsabile di un peggioramento dell’infezione causata dai virus A o B.
La scoperta è stata importantissima anche per il mondo dell’oncologia. L’HCV, come del resto gli altri virus che causano le epatiti, è infatti oncogeno, ovvero è in grado, col tempo, di stimolare lo sviluppo di un tumore. Più precisamente, il virus HCV nelle persone in cui instaura un’infezione cronica crea condizioni favorevoli al cancro del fegato agendo su una proteina chiamata NS5B, che normalmente impedisce la crescita incontrollata delle cellule funzionando da oncosoppressore.
A scoprire il meccanismo con cui HCV induce il cancro è stato, nel 2006, Stanley Lemon e il suo gruppo di ricerca alla University of Texas Medical Branch at Galveston (UTMB), pubblicando i risultati sulla rivista PNAS. Il meccanismo molecolare è analogo a quello del virus del Papilloma umano (HPV) che provoca il cancro della cervice uterina.
HCV è responsabile di circa l’85 per cento dei carcinomi epatici primari (ovvero non provocati da metastasi provenienti da altri organi). L’epatite C infetta ogni anno circa 2,8 milioni di persone nel mondo, mentre convivono con la malattia 170 milioni e di questi poco più di 70 milioni hanno una forma cronica. Il virus si trasmette attraverso il sangue e altri fluidi corporei, quindi anche con i rapporti sessuali. Col tempo l’epatite cronica può trasformarsi in una infiammazione stabile del fegato, poi in cirrosi epatica e infine in carcinoma epatocellulare. Il numero elevato di portatori e la relativa semplicità del contagio spiegano perché l’isolamento di questo virus, che ha permesso di cominciare a studiare modi con cui arginarlo, è stata valutata meritevole del più prestigioso premio scientifico.
Quella dell’epatite C è una storia di successi terapeutici. Grazie alla scoperta dei tre premi Nobel, sono stati messi a punto test molto sensibili a base di anticorpi, in grado di diagnosticare precisamente e rapidamente l’infezione e, soprattutto, di verificare l’assenza del virus nel sangue dei donatori, evitando la trasmissione per trasfusione, in passato purtroppo comune.
Nel 2013 è stato approvato negli Stati Uniti (e in seguito anche in Europa) il farmaco antivirale sofosbuvir, in grado di bloccare la replicazione del virus e di guarire dall’infezione una altissima percentuale di casi (dal 40 al 97 per cento a seconda delle situazioni). Dopo una inziale difficoltà a trattare tutti i pazienti per via dell’altissimo costo delle cure (una terapia con sofosbuvir costa tra gli 80.000 e i 150.000 euro), sono stati approvati altri farmaci con meccanismi analoghi, il prezzo è sceso un poco e il numero dei pazienti trattati è lentamente cresciuto. In Italia l’AIFA (l’agenzia che approva la rimborsabilità dei trattamenti farmacologici da parte del sistema sanitario nazionale) ha stilato una lista di 12 criteri in base ai quali le persone con epatite C possono essere trattate con questi farmaci innovativi nell’ambito di un Piano per l’eradicazione dell’epatite C. L’ultimo aggiornamento disponibile, datato 5 ottobre, conta 213.730 trattamenti avviati da quando esiste la cura.
Contro l’epatite C manca ancora un vaccino, che finora si è rivelato difficile da sviluppare per due ragioni fondamentali: del virus esistono numerosi ceppi e varianti distinti e per anni non è stato possibile propagare nessuno dei ceppi più comuni in laboratorio. Nonostante sia oggi disponibile una terapia, un vaccino preventivo contro l’HCV potrebbe prevenire i casi che tutt’ora si registrano ogni anno, senza dunque bisogno di ricorrere a terapie costose e non prive di importanti effetti collaterali per i malati cronici.
Daniela Ovadia