Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Con lo sviluppo delle tecniche di oncologia molecolare, il ruolo del medico nucleare si è fatto più prezioso, sia nella fase diagnostica sia in quella terapeutica.
C'è chi ne fa risalire l'origine ai lavori di Marie Curie, la grande scienziata che scoprì la radioattività e, a dire il vero, ne rimase vittima: la medicina nucleare, così chiamata perché sfrutta le proprietà del decadimento dell'atomo per curare le malattie o per fare diagnosi, vive in questi anni una seconda giovinezza, soprattutto nel campo dei tumori.
"Con lo sviluppo dell'oncologia molecolare, cioè di una conoscenza delle basi genetiche e metaboliche dei diversi tipi di cancro, la possibilità di accoppiare sostanze radioattive con altre mirate direttamente alla cellula tumorale consente da un lato di fare diagnosi molto precise e dall'altro di trattare ed eliminare alcuni tessuti maligni" spiega Emilio Bombardieri, past president dell'Associazione italiana di medicina nucleare e imaging molecolare all'Università di Milano. Il medico nucleare si è così trovato, in anni recenti a lavorare fianco a fianco con l'oncologo da un lato e col ricercatore dall'altro, poiché il suo strumento, la radioattività, può agire a tutti i livelli dell'organismo, dal più piccolo al più grande.
La formazione di queste figure è tra le più classiche: laurea in medicina e successiva specializzazione. Esistono poi figure di tipo tecnico, incaricate di preparare le sostanze radioattive o di trattare direttamente i pazienti con l'aiuto di diversi macchinari, che in genere sono in possesso di una laurea triennale. Il diploma universitario di tecnico di radiologia o tecnico di medicina nucleare è infatti presente in quasi tutte le facoltà di medicina, tra le offerte formative dell'area sanitaria.
"La forma più classica di applicazione della medicina nucleare è l'uso di radionuclidi artificiali, cioè prodotti da laboratori esterni, che, coniugati a cellule o a molecole, vengono introdotti nell'organismo soprattutto a fini diagnostici" spiega Bombardieri.
Funzionano così, per esempio, la scintigrafia o la SPECT (tomografia a emissione di fotone singolo). Contrariamente alle radiografie, che sfruttano l'attenuazione dei raggi X quando incontrano un tessuto più o meno denso, in medicina nucleare è il paziente che emette raggi gamma o X che vengono registrati da apparecchiature in grado di ricostruire l'immagine corrispondente. La sostanza radioattiva (chiamata tracciante), però, si deposita solo nei tessuti con determinate caratteristiche. Per questo deve essere "costruita" conoscendo bene il metabolismo delle cellule che si vogliono identificare. "L'esempio più comune è quello della tiroide, la ghiandola posta nel collo che produce ormoni che contengono iodio. Se introduco nell'organismo dello iodio radioattivo, andrà a depositarsi proprio nella tiroide e permetterà al medico di valutare, in base a quanta radioattività emette, se il tessuto lavora bene, troppo o troppo poco" spiega Bombardieri.
In oncologia, la messa a punto del tracciante è ancora più importante, perché la funzione della maggior parte di questi esami è identificare la presenza di cellule maligne, anche in piccola quantità, in qualsiasi area del corpo. È così, infatti, che si diagnosticano le metastasi, che costituiscono il pericolo principale per il malato.
"Con il progresso dell'oncologia molecolare abbiamo imparato a conoscere, per esempio, i recettori specifici dei diversi tipi di cellula tumorale e quindi a costruire traccianti in grado di scovarle anche negli anfratti più nascosti" continua l'esperto.
Rispetto alle altre tecniche di diagnostica per immagini, come la risonanza magnetica o la TC, le tecniche usate dalla medicina nucleare hanno un grosso vantaggio: studiano i tessuti durante la loro attività vitale e quindi dicono qualcosa anche sulla loro capacità metabolica. Ecco perché il suo ruolo in oncologia è fondamentale, dato che il metabolismo dei tessuti tumorali è in genere molto diverso da quello del tessuto sano.
Infine il medico nucleare può anche curare i pazienti: invece di somministrare radiazioni dall'esterno, come si fa con la radioterapia classica, oggi è possibile farlo dall'interno. In caso di tessuti particolari, come appunto la tiroide, si somministrano sostanze radioattive (con una radioattività molto maggiore di quella che si usa a scopi diagnostici) che vanno a depositarsi nella ghiandola distruggendo le cellule più attive, che sono in genere quelle tumorali. Il vantaggio? Si irradiano solo i tessuti malati e si risparmiano quelli sani.
"In anni recenti il medico nucleare ha fatto il suo ingresso anche in sala operatoria, con lo sviluppo dellaradioterapia intraoperatoria" continua Bombardieri. "Si irradiano i tessuti durante l'intervento, con una tecnica chiamata radioterapia intraoperatoria o ROT subito dopo la rimozione della massa tumorale, per evitare al paziente di dover tornare in ospedale dopo il ricovero, oppure si lasciano nella cavità tumorale dei 'semi' radioattivi (brachiterapia) che lentamente decadono e fanno il loro lavoro senza la necessità di ulteriori interventi".
Sempre più importante è il coinvolgimento del medico (e dei tecnici) di medicina nucleare nei progetti di ricerca. "Il nostro è davvero un ruolo di confine: conosciamo le caratteristiche metaboliche dei tessuti sani e patologici, come il medico che sta in laboratorio o il biologo, ma nello stesso tempo curiamo i malati e siamo dei clinici a tutti gli effetti" spiega Bombardieri. "Senza contare che le tecniche che utilizziamo sono preziose anche nella ricerca di base, poiché possiamo aiutare gli scienziati a studiare il funzionamento delle cellule in coltura o dei campioni bioptici. Alla fine, siamo davvero l'anello di congiunzione tra la provetta e il paziente".
Per poter lavorare come medico nucleare o radioterapista è necessario conseguire la laurea in medicina (6 anni) e la specialità in radioterapia (5 anni), presente in quasi tutte le facoltà di medicina.
Chi non volesse intraprendere un percorso così impegnativo può conseguire una laurea triennale che abiliti al ruolo di tecnico di radiologia medica, per immagini e radioterapia. Si tratta di una figura tecnica, che somministra le terapie o esegue gli esami diagnostici su indicazione del medico. Nei centri che svolgono ricerca, queste figure sono parte integrante dello staff scientifico, con ruoli legati alla preparazione dei traccianti o alla somministrazione delle terapie sperimentali.
Cristina Ferrario