Ultimo aggiornamento: 18 gennaio 2022
Le pellicole con protagonisti pazienti oncologici sono comparse tardi nella storia del cinema e spesso sono poco accurate e hanno toni eccessivamente drammatici. Nonostante ciò, hanno contribuito a ridurre lo stigma nei confronti di una malattia un tempo impronunciabile.
Il tumore è stato per tanti anni un grande assente dal cinema. Ha iniziato infatti a giocare un ruolo da protagonista nelle trame delle pellicole solo a partire dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, sempre però rigorosamente descritto come un male incurabile e usato quindi da espediente per trame strappalacrime. Pellicola perfetta, in tal senso, è stata Love story, del 1970, diretto da Arthur Hiller. Il film parla di due ragazzi, Oliver Barrett (interpretato da Ryan O’Neal), rampollo di una facoltosa famiglia e studente della prestigiosa Università di Harvard, e l’italoamericana Jennifer Cavalleri (Ali MacGraw), che si innamorano. Con una trama un po’ alla Romeo e Giulietta, i due si sposano pur sapendo di dover affrontare ristrettezze economiche. Non riuscendo ad avere figli, i due si sottopongono a esami clinici per scoprire una triste verità: Jennifer è vittima di una forma fulminante di leucemia, che non le dà scampo.
Negli ultimi vent’anni il numero dei cosiddetti “cancer movies” è notevolmente aumentato, ma è cambiata la narrazione del tumore rispetto al passato? Potrebbe, il cinema, essere strumento di sensibilizzazione e informazione? I film sono veritieri nel raccontare la realtà dietro alle diagnosi?
Domande che in molti si sono posti, in ambito artistico ma anche in ambito scientifico, tanto che alcuni anni fa un gruppo italiano, guidato da Luciano De Fiore dell’Università Sapienza di Roma, ha provato a rispondere a questi interrogativi. Oncomovies: cancer in cinema è il titolo dello studio che ha analizzato 74 anni di storia del cinema, dal 1939 al 2012 (anno della pubblicazione dei risultati), e che ha confermato la sensazione che i film raramente rispecchiano le reali probabilità di sopravvivenza dopo una diagnosi di tumore. Il cancro troppo spesso è usato come escamotage narrativo senza una particolare attenzione al progresso dei trattamenti oncologici.
Nello studio dell’Università di Roma sono state analizzate 82 pellicole, molte incentrate su un personaggio a cui era stato diagnosticato un cancro: un reduce della guerra di Corea con un tumore al polmone (Clint Eastwood, in Gran Torino), un padre di famiglia ignaro della propria diagnosi perché i medici non gliene parlano (Burl Ives, in La gatta sul tetto che scotta), un prete affetto da un tumore allo stomaco (Claude Laydu, in Diario di un curato di campagna). “Il cancro non è un argomento di cui è facile parlare” afferma De Fiore nel suo studio “e vederlo in un film dà al pubblico la possibilità di dare voce alle proprie emozioni.” Anche perché, soprattutto oggi, la vita dopo una diagnosi non è fortunatamente così cupa come è stata finora spesso rappresentata nelle pellicole di Hollywood.
“Molto spesso il malato nei film non supera la malattia e la sua morte è in qualche modo utile all’esito della trama. Questo schema è così fortemente standardizzato che persiste nonostante i reali progressi delle cure” spiegava De Fiore. Infatti nelle pellicole analizzate a morire era il 63 per cento dei protagonisti, e il trattamento più frequentemente menzionato era la chemioterapia, seguita dagli antidolorifici, mentre i tumori più diffusi non erano quelli al seno, come avviene nella realtà, ma leucemie relativamente rare, linfomi o tumori al cervello. Inoltre, la rappresentazione di determinate classi socioeconomiche o anagrafiche era sbilanciata: l’età media dei protagonisti malati sullo schermo non rispecchiava la realtà epidemiologica, tanto che solo una minima parte dei protagonisti aveva più di 70 anni, l’età in cui più di frequente si presenta la malattia nel mondo reale.
Quella epidemiologica è una chiave importante per rendersi conto, partendo dagli stessi film citati in Oncomovies, di alcuni limiti della messa in scena cinematografica di temi oncologici, e di come la scienza dietro ai tumori possa essere mal rappresentata.
Guardando il film Erin Brockovich - Forte come la verità, per esempio, è facile fraintendere il concetto epidemiologico noto come “cluster di cancro”. Un cluster di cancro è un inatteso numero di casi di tumore registrato all’interno di un gruppo di persone in un’area geografica in un tempo definito. Per chi non avesse visto la pellicola, la protagonista Julia Roberts interpreta la segretaria di uno studio legale che riesce a convincere 233 abitanti di una piccola cittadina della California a portare in tribunale il colosso americano Pacific Gas & Electric, responsabile, secondo gli abitanti e la stessa segretaria, di una serie di casi di tumore (molto diversi tra loro) per aver inquinato le falde acquifere della zona. Questo film potrebbe far passare un messaggio sbagliato, vale a dire che una causa comune (nel nostro esempio, l’inquinamento prodotto dalla Pacific Gas & Electric) possa essere responsabile di tanti e diversi tumori, o che le storie mediche personali dei singoli possano essere usate come prova statistica, distorcendo così la stessa nozione di rischio.
Le parole più belle del mondo non sono “Ti amo” ma… “è benigno”. Recitava così Harry Block in Harry a pezzi, di Woody Allen, ma di citazioni sul cancro se ne possono trovare molte. Sono 144 le pellicole recensite dalla versione in inglese di Wikipedia che parlano di cancro e, di queste, 14 hanno specifiche pagine presenti su Wikiquote, il sito web di citazioni della Wikimedia Foundation. Un film tra i più ricchi di citazioni è 50 e 50 di Jonathan Levine, con Joseph Gordon-Levitt e Seth Rogen che interpretano rispettivamente Adam Lerner e il suo migliore amico Kyle. La storia parla di terapie, disagio in ospedale e paura per il futuro in un paziente a cui hanno diagnosticato un cancro (un tumore maligno delle guaine nervose periferiche) a cui sopravvive solo la metà dei malati, come suggerisce il titolo. “Starai bene. 50 e 50!” dice un personaggio al protagonista. “Se tu fossi un gioco da casinò avresti le migliori probabilità di vittoria.”
Usare il grande schermo e le star del cinema per parlare di un problema reale può essere un importante strumento non solo per sensibilizzare gli spettatori, ma anche per i pazienti (per renderli edotti di nuove terapie disponibili o di alcune dinamiche delle cure) e per gli operatori sanitari stessi, per educarli e farli riflettere su quali sono le conseguenze della malattia sulla sfera più intima della vita dei pazienti, come per esempio sul rapporto tra cancro e sessualità.
Un altro argomento sensibile (si veda il già citato La gatta sul tetto che scotta) riguarda il rapporto fra medico e paziente. Spesso nei film vengono sottolineate soprattutto le reciproche mancanze, per esempio nel cult Un medico, un uomo, il cui protagonista è proprio un dottore che si trova ad attraversare il confine e diventare paziente e che, con un tumore alla gola, scopre che cosa significa trovarsi dall’altra parte della scrivania e quante complicazioni possono creare burocrazia e umane meschinità. Una volta guarito, il protagonista si dedica all’educazione dei colleghi di reparto. A dimostrazione dell’impatto che questo tipo di film può avere sulla stessa pratica clinica, diverse associazioni di pazienti statunitensi hanno riferito di utilizzare la pellicola per la formazione degli specializzandi in oncologia.
Il team di ricerca della Sapienza, in seguito alla divulgazione massiccia del proprio studio descrittivo in occasione del congresso della Società europea di oncologia medica (ESMO) e alla risonanza che tale studio aveva avuto, qualche anno più tardi ha ampliato e finalizzato la propria ricerca. Le pellicole esaminate in questo nuovo lavoro sono 148, quasi il doppio del precedente, 16 sono italiane, e italiano è proprio uno dei primi film a parlare di cancro: si tratta di Amanti di Vittorio De Sica, del 1968. I film affrontano tutte le tematiche rilevanti quando si tratta di malattia oncologica: la già citata epidemiologia del cancro ma anche le implicazioni economiche delle terapie, la gestione dei sintomi, gli effetti collaterali, e ancora, la relazione tra paziente e medico, la psicologia, il fine vita.
I limiti di questa rappresentazione sono evidenti: oltre ai problemi di incongruenza con la realtà epidemiologica già citati, gli esperti sottolineano quanto spesso il malato oncologico nel cinema scelga di “sacrificarsi” per gli altri, come vittima predestinata che si immola per il bene dell’umanità (per esempio in Space Cowboys e nel già citato Gran Torino).
I film, quindi, parlano spesso di cancro ma ne parlano male, in modo irrealistico. Eppure anche questo serve, secondo gli esperti. “Se spesso sullo schermo il negativo e il dolore vengono sostanzialmente anestetizzati, quando il cinema tratta di tumore il più delle volte ciò non avviene. Lo spettatore ha dunque la possibilità di elaborare in forma di esperienza propria, personale, quel che l’opera gli offre. Ciò fa sì che, nelle storie cinematografiche che hanno al centro una problematica oncologica, il più delle volte chi guarda viene personalmente sollecitato” scrivono. “In questo modo la questione cancro, da problema individuale o tutt’al più familiare, assume una dimensione collettiva, non più solo personale, ma pubblica, contribuendo fattivamente a ridurre lo stigma nei confronti della malattia.”
Carlotta Jarach