Ultimo aggiornamento: 9 maggio 2024
Originario di Bitonto, medico e ricercatore, Antonio Moschetta ha viaggiato molto fin dai suoi primi anni di studi. Oggi lavora a Bari e, grazie ad AIRC, studia le relazioni tra nutrizione, metabolismo e alcuni tumori
Vive a Bitonto, dove è nato, e lavora a dieci minuti di distanza da casa, a Bari, nell’Università in cui si è laureato in medicina nel 1997: malgrado ciò, Antonio Moschetta è quanto di più lontano si possa immaginare da un ragazzo timoroso di allontanarsi dal nido. Semmai è uno che non vede l’ora, appena si alza il vento, di mettersi in punta di piedi e allargare le braccia il più possibile per cercare di spiccare il volo, per inseguire il “priscio”, come nel dialetto di quello spicchio di Puglia si chiama la gioia profonda, che lui associa al piacere di assecondare la passione per la ricerca, vedendone sbocciare i frutti.
Il priscio lo ispira e lo guida già dagli anni del liceo, quando riesce a conciliare l’ottimo rendimento scolastico con i pomeriggi di svago, lo studio (“Mi alzavo prestissimo al mattino per studiare, così al pomeriggio potevo uscire con gli amici”) con l’attivismo in occasione degli scioperi degli studenti e delle lotte in assemblea, da cui non si tira mai indietro.
La personalità non gli è mai mancata, ma, dopo la rissa che alle scuole medie gli vale la sospensione, impara a tenere a bada la “testa matta”, anche perché, per via del narcisismo di cui è molto consapevole, non può accettare niente di meno che “ottimo” all’esame di terza media, e di 60 sessantesimi alla maturità. “Ho frequentato il liceo classico Carmine Sylos di Bitonto, con professori veramente bravi ed esigenti, grazie ai quali ho acquisito un metodo di apprendimento che mi è stato poi utilissimo all’università – per esempio all’esame di anatomia, che per molti rappresenta un ostacolo paralizzante – e ancora oggi mi permette di affrontare testi difficili senza tentennamenti e di assimilarli rapidamente.”
Appassionato di storia e filosofia, dopo la maturità valuta se proseguire gli studi in quella direzione, ma è la mamma Antonietta – che insegna lettere in una scuola media – a spingerlo verso un corso di studi che offra più prospettive di un buon impiego. La scelta cade sulla facoltà di medicina, e quindi sul mestiere del papà Raffaele, gastroenterologo ospedaliero.
Lo scoglio degli esami di ammissione viene superato al primo tentativo: ventisettesimo sui trecento nuovi immatricolati in medicina a Bari. Sono i primi esami a farlo vacillare un po’: materie come fisica, chimica e statistica – fondamentali per chi vuole poi fare ricerca – sono per lui pesanti e indigeste: “Mi piaceva il lato umano del mestiere del medico, e odiavo l’idea di fare ricerca” ricorda. Gli esami vengono comunque superati in corso, pur senza priscio.
È grazie all’incontro con il docente di anatomia che inizia invece a provarlo: destino vuole che il professore sia anche il responsabile per l’Università del progetto Erasmus, che incoraggia gli studenti a fare esperienze all’estero. Antonio è appena al secondo anno quando decide di passare sei mesi a Maastricht, in Olanda, dove i corsi, focalizzati su immunologia e microbiologia, sono in inglese e l’approccio è innovativo. La richiesta di partire da un problema clinico, analizzarlo e risolverlo, è per lui un invito a nozze, e il semestre olandese lascia un segno “entusiasmante”.
Passa poco tempo, giusto i mesi necessari per sostenere a Bari gli esami del terzo anno, e di nuovo l’idea di salire su un altro aereo lo affascina inesorabilmente.
Se prima era andato nel nord Europa a cimentarsi con l’inglese, la nuova sfida lo porta molto a sud, e molto a ovest: approfittando di un altro programma europeo, nato per semplificare il riconoscimento degli esami sostenuti all’estero (chiamato ECTS, European Credit Transfer and Accumulation System), ha l’occasione di trascorrere un intero anno all’Università di La Laguna a Tenerife, nelle isole Canarie, che fanno parte della Spagna ma sono nel mezzo dell’Oceano Atlantico, al largo della costa desertica del Marocco.
Nel piccolo ospedale universitario ha l’occasione di fare molta pratica in tutti gli ambiti della medicina: “Ero al quarto anno, e ho davvero fatto di tutto, scoprendo di provare amore per la disciplina” racconta Moschetta. “Avevo tantissimi amici, e forse è lì che ho iniziato a volermi affiancare alle persone che ritenevo più capaci, per provare a imitarle e imparare a essere come loro.”
Dopo il ritorno a Bari deve sostenere alcuni esami fondamentali che non erano nel piano di studi spagnolo: “Mi mancava semeiotica medica, la disciplina che studia i sintomi e i segni clinici, e mi ritrovai nel reparto di clinica medica, da cui non sono mai più uscito. Fu un momento davvero importante per me”.
La laurea in medicina arriva con il massimo dei voti nel 1997, e Antonio non ha ancora avuto il tempo per pensare al prossimo passo. Un ricercatore maturo però rinuncia a partire per un periodo di specializzazione all’estero presso un gruppo di ricerca con cui l’Università di Bari collabora. Il gruppo è a Utrecht, in Olanda, e lui diventa il candidato naturale: “Mi chiesero: ‘Vuoi andare tu? È un progetto di sei mesi, poi vediamo’ e io accettai subito, seppure con un velo di tristezza. Ricordo ancora che partii per Amsterdam il giorno del mio compleanno, e all’arrivo il professore che era venuto a prendermi in aeroporto mi invitò a quello che chiamò il mio battesimo da olandese, per cui dovetti mangiare una tipica aringa con cipolla”.
La prelibatezza nordica non incontra i gusti del neolaureato abituato a ben altra cucina, e rimane indigesta, ma è di buon auspicio: la permanenza si prolunga di oltre due anni, in cui si specializza nello studio dei grassi, della bile e delle malattie a essi correlati, iniziando a gettare le basi per le sue ricerche future.
Dopo la prima pubblicazione importante sul Journal of Lipid Research, arriva il dottorato di ricerca. “Tra gli esperti riuniti per discutere le tesi di dottorato mi trovai di fronte Martin Carey, gastroenterologo della Harvard Medical School, che mi propose di andare a lavorare nel suo laboratorio di Boston come post-doc” rievoca Moschetta. Per una volta, la risposta non è immediata: per quanto affascinante sia l’idea di trasferirsi nella prestigiosa Università del New England, vuole prima esplorare un’opzione per lui ancora più ghiotta, per il tipo di ricerche che ha in mente, sul rapporto tra nutrienti, ormoni e DNA: “Mandai una e-mail a David Mangelsdorf, che lavorava all’Università del Texas nel Dipartimento del farmacologo e biochimico vincitore di un premio Nobel Alfred Gilman, e che non conoscevo. Gli inviai i risultati della mia tesi, senza sapere bene che cosa aspettarmi” ricorda sorridendo. “Tempo 12 ore mi rispose
invitandomi ad andare a Dallas per presentarli di persona.” La presentazione fa colpo, e all’alba del primo gennaio 2003 il ventinovenne bitontino festeggia l’anno nuovo prendendo un volo per Roma, e da lì per New York e poi per Dallas, dove acquisisce “non solo nuove tecniche, ma la libertà di osare nella scienza, esercitando la ricerca che si vuole fare e non solo quella che si può fare”. L’impegno si traduce nella pubblicazione di studi che hanno l’onore della copertina su riviste come Nature Medicine. Ma non solo. A Dallas Antonio trova anche nuovi esempi a cui ispirarsi, e a cui carpire insegnamenti che gli serviranno per il futuro ruolo da group leader.
Alla prospettiva di ottenere un contratto permanente (la cosiddetta “tenure”) a Dallas preferisce l’offerta del Politecnico di Losanna. È in cerca di possibilità che gli garantiscano l’autonomia finanziaria quando fa domanda per lo Start-Up grant di AIRC, che ottiene a fine 2005. Può così aprire, in collaborazione con l’Università di Bari, il suo laboratorio all’Istituto Mario Negri Sud, a Santa Maria Imbaro in Frentania, dove in quegli anni lavoravano alcuni tra i migliori ricercatori d’Italia. “Il grant AIRC ha significato la possibilità di acquistare i reagenti in prima persona. Firmare l’ordine con i tuoi fondi è un’esperienza forte. Al Negri Sud trascorrevo la settimana dormendo nella foresteria, e la sera si cucinava e si mangiava insieme. In quei momenti nascevano spesso discussioni appassionanti e stimolanti, anche per via delle competenze trasversali di ciascuno di noi.” Nei week-end torna a Bari, a due ore di macchina. Con grande priscio, il laboratorio guidato da Antonio pubblica nel campo del metabolismo dei tumori i risultati di nuovi studi che meritano le copertine di Cancer Research, Cell Metabolism, Gastroenterology, Gut ed Hepatology. È durante quel periodo di pendolarismo che nasce Raffaele, che oggi ha 14 anni e frequenta anche lui il liceo classico.
Quando il Negri Sud ha difficoltà finanziarie e chiude, Moschetta fa domanda per il posto di direttore scientifico dell’Istituto oncologico di Bari, che dirige per un anno, perché, quando ottiene l’abilitazione a professore universitario e poi vince la cattedra all’Università, è costretto a scegliere. Il secondo figlio Adriano, che ora ha 8 anni, nasce dopo il ritorno a Bari.
Ora il suo laboratorio ha compiuto 15 anni, e lui ha già visto passare quasi cento tra studenti di dottorato e postdoc, grazie anche a finanziamenti di altre istituzioni, tra cui quello riservato dal Consiglio europeo per la ricerca ai giovani ricercatori che presentano una buona idea per uno studio.
Nel 2019 ha avviato un nuovo progetto di ricerca grazie all’Investigator grant quinquennale di AIRC su metabolismo e tumore del fegato, visto e studiato da una prospettiva innovativa: l’intestino. Nel frattempo continua a insegnare medicina interna, la sua passione da sempre, e si muove da un piano all’altro per passare dal laboratorio all’ambulatorio al reparto, e dall’infinitamente piccolo alla visione d’insieme: “C’è chi al microscopio osserva subito al massimo ingrandimento, e chi invece parte dalla vista allargata. L’internista ama interpretare entrambe le visioni ma non è mai pienamente soddisfatto da nessuna delle due, e cerca sempre di essere vicino al paziente” spiega. “Il campo della relazione tra nutrizione, stili di vita e cancro è pieno di fake news, e di errori in buona fede. Per esempio con il primo grant AIRC ho studiato il recettore FXR che pensavamo fosse pro-tumorale, scoprendo che in realtà è anti-tumorale, cioè ha un effetto opposto a quello che immaginavo. L’errore è alla base della crescita, e io vivo con la cultura dell’errore.”
Versione originale dell'articolo: gennaio 2021
Agenzia Zoe