Ultimo aggiornamento: 30 aprile 2020
L’evoluzione delle tecniche diagnostiche e la capacità di individuare alcune lesioni dei tessuti ha aumentato il numero e il tipo delle cosiddette lesioni precancerose: alterazioni di cellule e tessuti che possono evolvere in un tumore, ma che, nel momento della diagnosi, non possono ancora essere considerate tali. Le lesioni precancerose sono relativamente comuni nei tumori femminili, ma non solo. Vediamo quali sono e quali strategie si possono mettere in atto per affrontarle.
La mammografia è un esame che permette di rilevare alcune alterazioni della struttura del seno. In molti Paesi, tra cui l’Italia, questo esame è consigliato nell’ambito di programmi di screening per la diagnosi precoce del tumore della mammella, in determinate fasce di età. Tuttavia l’esito di un esame mammografico positivo dice soltanto che è stata rilevata una lesione con certe caratteristiche, che devono essere confermate e precisate dalla biopsia e da un esame istologico. Da una semplice mammografia nulla si può dire sulla possibile evoluzione di tali lesioni.
Fra le alterazioni rilevate frequentemente con la mammografia, vi è il carcinoma duttale in situ (DCIS), le cui diagnosi sono cresciute parecchio nel tempo, da quando esistono gli screening, tanto che, nei soli Stati Uniti, vi sono oggi un milione di donne con diagnosi di DCIS.
Tra gli esperti, alcuni considerano queste lesioni al pari di alterazioni precancerose e non di veri e propri tumori. Tuttavia chi riceve una diagnosi di questo tipo tende a preoccuparsi molto e spesso a sovrastimare il rischio. In uno studio di alcuni anni fa, in cui un gruppo di senologi di Harvard avevano domandato a circa 500 donne con DCIS di definire la propria condizione, il 53 per cento aveva risposto di sentirsi a rischio di metastasi per tutta la vita. I risultati dello studio erano stati pubblicati sul Journal of the National Cancer Institute. La percezione delle donne non è tuttavia in linea con i fatti: su un campione di oltre 100.000 pazienti con DCIS, tenute in osservazione per 20 anni dalla diagnosi, solo il 3,3 per cento sono morte di cancro al seno (e si è trattato soprattutto di quelle che hanno ricevuto la diagnosi in età giovanile o appartenevano a gruppi a rischio come, nel caso di questo studio condotto negli Stati Uniti, le donne afroamericane).
L’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM), che riunisce la maggior parte degli oncologi italiani, ha emanato nel 2016 alcune linee guida sull'argomento, allo scopo di aiutare le pazienti con diagnosi di questo tipo a fare la scelta migliore per sé.
Il carcinoma duttale, secondo AIOM, va considerato a tutti gli effetti una lesione pretumorale e come tale andrebbe trattato. Il trattamento consigliato è generalmente la chirurgia. Con l’avvento delle tecniche mininvasive, a volte, in base all’estensione del tumore, viene prescritta anche la radioterapia o, se non si è sicuri di riuscire ad asportare tutto, la mastectomia tradizionale. Se poi il DCIS, analizzato dal punto di vista molecolare, esprime i recettori per gli estrogeni, in casi specifici, e dopo chirurgia e radioterapia, viene indicata la terapia con tamoxifene, che negli anni ha dimostrato di essere in grado di prevenire le recidive e allungare significativamente la sopravvivenza. Nell’insieme, questo approccio dovrebbe aiutare a prevenire lo sviluppo di una malattia più estesa a partire da un DCIS.
Un’altra diagnosi piuttosto frequente a seguito di controllo mammografico è il cosiddetto carcinoma lobulare in situ (LCIS). Le donne con carcinoma lobulare hanno una probabilità maggiore di sviluppare negli anni un tumore al seno, ma il rischio, oggi, non viene considerato tale da giustificare un approccio chirurgico, e non è ancora chiaro quanto il LCIS sia effettivamente maligno. Si preferisce quindi, di solito, non intervenire e tenerlo monitorato.
In questo caso, a seconda della situazione, dell’età e della presenza di altri eventuali fattori di rischio per la malattia, le opzioni possibili sono due: la sorveglianza e la chemioprevenzione. La prima consiste in un esame clinico ogni 6-12 mesi e in una mammografia annuale; nelle donne giovani o con seno denso o, ancora, con una storia familiare di tumore mammario, può essere utile anche sottoporsi a risonanza magnetica. La prevenzione con farmaci, tamoxifene o raloxifene può far diminuire i rischi di evoluzione e va valutata con il medico sulla base del livello di rischio individuale.
Il principale fattore di rischio per il tumore della cervice è l'infezione da papilloma virus umano (HPV) che si trasmette per via sessuale. L’infezione è una condizione necessaria ma non sufficiente perché si sviluppi un tumore. La maggior parte delle donne che entrano in contatto con uno dei ceppi virali oncogeni di HPV è in grado di eliminare l'infezione ed eventuali lesioni grazie all’intervento del proprio sistema immunitario senza successive conseguenze per la salute. Questo è anche perché la maggior parte delle cellule che può portare allo sviluppo di un tumore della cervice molto spesso non dà immediatamente origine al cancro vero e proprio, ma genera delle lesioni chiamate CIN (neoplasia cervicale intraepiteliale), SIL (lesione intraepiteliale squamosa) o displasia. Si tratta di alterazioni che possono progredire lentamente nel corso degli anni verso la forma tumorale, o, in molti casi, regredire spontaneamente senza alcun trattamento.
A oggi non esiste una cura in grado di eliminare il virus HPV. Quando il medico riscontra una lesione precancerosa, in genere procede all’eliminazione con un semplice intervento locale (che può anche essere molto superficiale) o in alcuni casi può decidere di non intervenire e di monitorare se nel tempo l’attività del sistema immunitario è sufficiente. La situazione va in ogni caso tenuta sotto controllo con Pap-test annuali o anche più ravvicinati.
Il Pap-test è appunto l'esame con cui le lesioni vengono identificate, e i suoi risultati sono espressi secondo la cosiddetta "classificazione di Bethesda". Il medico in questo modo sarà in grado di stabilire quanto aggressiva potrebbe essere un'eventuale alterazione pre-cancerosa e scegliere la strategia di intervento più efficace. Le linee guida raccomandano di fare il Pap-test tra i 21 e i 65 anni di età, ogni tre anni (se l'esame è negativo). Sotto i 21 anni lo screening non è raccomandato.
Se invece vengono riscontrate anomalie, il medico prescriverà ulteriori esami, come per esempio la ricerca del DNA del virus del papilloma umano (HPV) o la colposcopia. Soprattutto l'eventuale presenza nelle cellule di DNA virale richiede ulteriori approfondimenti, perché il virus è responsabile della trasformazione in senso canceroso delle cellule della cervice.
La colposcopia, che come il Pap-test dura pochi minuti, è indolore e viene eseguita dal ginecologo in ambulatorio; si basa sull'osservazione ravvicinata della cervice uterina grazie a uno speciale microscopio che permette anche di illuminare la regione da esaminare. Prima di procedere all'osservazione, il ginecologo tratta la cervice con una soluzione a base di acido acetico che mette in risalto eventuali aree contenenti cellule anomale, in modo da poterle prelevare con un apposito strumento e osservarle al microscopio.
Da quando esiste il vaccino contro l’HPV, il numero delle infezioni da HPV è drasticamente diminuito tra le donne vaccinate, e con esse anche i casi di lesioni precancerose della cervice. Ci si aspetta che nel tempo anche i tumori di questo tipo, di conseguenza, diminuiranno.
L’endometrio è lo strato di cellule che riveste la parete del corpo dell’utero, cioè la parte dell’organo più lontana dall’apertura vaginale. Anche le cellule dell’endometrio possono dare origine a un tumore che in genere colpisce le donne in menopausa, con un picco attorno ai 60 anni. Ogni anno si contano, in Italia, poco più di 8.000 tumori dell’endometrio.
La presenza di sintomi precoci, come perdite anomale di sangue tra un ciclo e l’altro – o quando si è già in menopausa –, permette, nel 70 per cento dei casi, di identificare la malattia quando è ancora localizzata e quindi più facilmente curabile. Per questo, di fronte a perdite vaginali anomale o dolori al basso ventre, è bene rivolgersi al ginecologo che, in caso di dubbio, prescriverà altri esami specifici (ecografie, biopsie, eccetera) per stabilirne la causa.
Una possibile causa di cancro dell'utero è l’iperplasia endometriale, un ispessimento della mucosa causato dalla crescita eccessiva delle cellule di rivestimento dell'organo. Esistono due tipi di iperplasia endometriale: quella atipica e quella senza atipie. In quest’ultima forma il rischio di progressione verso il tumore è più basso, e nella maggior parte dei casi il tessuto dell'utero torna alla normalità senza alcun trattamento, specie se i fattori di rischio possono essere identificati e corretti.
Secondo le linee guida del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists (RCOG) e la British Society for Gynaecological Endoscopy (BSGE), la causa più comune di questa condizione è una produzione eccessiva e prolungata di estrogeni da parte delle ovaie, spesso in presenza di una cisti da cui dipende tale produzione in eccesso. Altri fattori di rischio includono l'età, l’obesità, la sindrome dell'ovaio policistico, l'uso di tamoxifene come trattamento per il cancro al seno e l'uso di terapia ormonale sostitutiva per i sintomi della menopausa.
L’iperplasia endometriale è curabile con farmaci ormonali o con la chirurgia, e con la diagnosi precoce si può ridurre al minimo il rischio di sviluppare il cancro dell'utero.
Agenzia Zoe