Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Domande e risposte sulla prevenzione, diagnosi e cura dei tumori e sul mondo della ricerca oncologica.
In linea generale la risposta è no. La maggior parte delle persone, infatti, sviluppa un solo tumore primario che però può diffondersi anche in altri organi dando origine alle metastasi. Per esempio, le cellule tumorali della prostata possono raggiungere le ossa: in questo caso non si parla di tumore primario delle ossa, bensì di metastasi ossee legate alla diffusione del tumore primario prostatico.
In alcuni casi però - in particolare con il tumore al seno, ai testicoli e alla pelle - avere un primo tumore aumenta il rischio di svilupparne altri nel corso della vita. C'è poi un aumento del rischio, seppur lieve, legato al trattamento di chemio o radioterapia utilizzato per curare il tumore primario. La radioterapia può aumentare leggermente il rischio di sviluppare altri tumori, soprattutto se viene effettuata in giovane età. In ogni caso è bene ricordare che i benefici del trattamento superano di gran lunga il rischio di sviluppare un nuovo tumore.
Solo raramente il prurito rappresenta un segno di tumore mammario, che invece viene sospettato di fronte ad altri segni e sintomi, come, per esempio, la presenza di un nodulo o una massa che prima non c'erano, il cambiamento della forma del seno, perdite (diverse dal latte) dal capezzolo, retrazione del capezzolo e modifiche nell'aspetto e nella consistenza della pelle del capezzolo o del seno. Esistono però situazioni nelle quali il prurito può essere un campanello d'allarme per il tumore del seno, in particolare nel caso del tumore mammario infiammatorio, che si presenta proprio con arrossamento, infiammazione, dolore e prurito. Anche la malattia di Paget del capezzolo, associata al tumore del seno, può causare prurito. In realtà, molto più spesso il prurito è causato da un eczema o da un altro problema di tipo dermatologico.
Il cancro non è un'unica malattia, ma un insieme molto complesso di patologie con caratteristiche differenti che rendono difficile trovare un farmaco efficace in tutti i casi. Esistono più di 200 tipologie di cancro e, all'interno di uno stesso tumore, esistono numerose varianti che rispondono in modo diverso alle terapie. Alla base di questa complessità ci sono le mutazioni del DNA, il nostro patrimonio genetico, che portano allo sviluppo del tumore e alla sua progressione: mutazioni diverse rendono le cellule più o meno sensibili ai trattamenti e fanno sì che un farmaco efficace su un tumore sia del tutto privo di efficacia su un altro. I farmaaci mirati basano la loro efficacia proprio sull'esistenza di particolari bersagli sulle cellule tumorali. Non è detto però che tutte le cellule tumorali presentino una molecola bersaglio. E, se il bersaglio non c'è, è inutile utilizzare la terapia diretta contro quella molecola, poiché non sarebbe efficace contro la malattia e porterebbe solo effetti collaterali.
In inglese si chiamano monociti patrolling, vere e proprie pattuglie di cellule immunitarie in servizio per garantire la salute dell'organismo: secondo uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Science sono importanti anche per combattere le metastasi, in particolare quelle che colpiscono il polmone. I ricercatori dell'Istituto di allergologia e immunologia dell'Università di La Jolla, negli Stati Uniti, sono riusciti, infatti, a dimostrare in modelli animali che questi poliziotti riescono a intercettare e distruggere le cellule metastatiche che si muovono nel sangue per andare a colonizzare altri organi. Non sono ancora chiari nei dettagli i meccanismi attraverso cui le pattuglie cellulari eliminano le cellule metastatiche, ma si sa, per esempio, che una volta identificato il nemico chiedono aiuto ad altre cellule immunitarie, i natural killer, capaci di distruggere le cellule del tumore. Potenziare il sistema immunitario, e in particolare le pattuglie di monociti, potrebbe impedire al tumore di diffondersi anche ad altri organi, non solo il polmone.
In linea generale il rischio che una chemioterapia possa danneggiare il DNA delle cellule germinali del padre pur mantenendolo fertile è molto remoto. Gli spermatozoi sono cellule delicate e la presenza di una mutazione li rende in genere inabili a fecondare l'ovulo. Non solo: alcuni studi hanno analizzato il destino di bambini nati a breve termine dalla fine delle cure paterne e non hanno riscontrato alcuna differenza in termini di percentuali di malformazioni o sindromi congenite rispetto ai figli di coppie in cui nessuno dei genitori era stato sottoposto a queste cure. In ogni caso è bene segnalare la circostanza al ginecologo il quale può, anche per rassicurare i genitori, prescrivere un esame ecografico morfologico del feto più approfondito e dettagliato di quello suggerito normalmente.
Redazione