Ultimo aggiornamento: 17 febbraio 2022
Le caratteristiche dei tumori pediatrici fanno sì che fare ricerca per sconfiggerli sia particolarmente complesso. Nonostante ciò, negli ultimi decenni la percentuale di guarigioni ha continuato a crescere
Se c’è un aspetto che più di ogni altro caratterizza la ricerca oncologica sui tumori pediatrici sono proprio i bambini, che richiedono molte attenzioni speciali su diversi fronti. Non si possono infatti adattare a misura di bambino le terapie dell’adulto riducendo semplicemente i dosaggi o la frequenza dei farmaci: se questo è vero per tutte le specialità pediatriche, la necessità di adottare un approccio specifico, ritagliato su misura, è nel caso dei tumori che colpiscono bambini e adolescenti più forte e sentita che mai fin dalle fasi sperimentali.
Oggi si stima che in Italia circa 1.400 bambini di età inferiore ai 14 anni siano colpiti dal cancro ogni anno, e con loro 900 adolescenti tra i 15 e i 19 anni. In tutto, i tumori pediatrici costituiscono circa l’1 per cento di tutte le neoplasie. Rispetto a non molti anni fa, grazie ai progressi della ricerca e alle nuove terapie, diversi tumori pediatrici sono diventati più facili da curare. Il dato della sopravvivenza (misurata per convenzione a 5 anni dalla diagnosi) supera l’80 per cento per le leucemie, e si aggira attorno al 70 per cento per i tumori solidi.
Uno studio recente, finanziato da AIRC e pubblicato sull’International Journal of Cancer da un gruppo di ricercatori dell’Istituto superiore di sanità (ISS), del CNR, del Centro di riferimento per l’epidemiologia e la prevenzione oncologica in Piemonte e dell’Associazione italiana registri tumori, ha confermato che il numero di adulti in buona salute dopo un’infanzia segnata da una diagnosi di cancro è in continuo aumento. La ricerca ha preso in esame i dati forniti da 15 registri tumori, che coprono il 19 per cento della popolazione del Paese, e stima che siano circa 45.000 i soggetti che hanno superato un tumore in età giovanile, con una lieve prevalenza di maschi (54 per cento contro il 46 per cento di femmine). Due terzi di questi (il 64 per cento) avevano ricevuto la diagnosi prima del 1995, momento di inizio del periodo di osservazione. Alla data della rilevazione, nel 2010, uno su quattro aveva già raggiunto e superato i 40 anni dopo una diagnosi di cancro. I tipi di neoplasia più comuni all’interno del campione erano i tumori al sistema nervoso centrale e periferico (circa un quarto del totale), la leucemia linfoide acuta (circa un altro quarto del totale) e il linfoma di Hodgkin (7 per cento del totale).
Proprio perché il numero di bambini che vivono molto a lungo dopo un tumore pediatrico è significativo e in continuo aumento, grazie a diagnosi sempre più tempestive e al miglioramento delle cure, diventa fondamentale trovare il miglior equilibrio possibile tra efficacia degli approcci terapeutici e riduzione degli effetti collaterali che rischiano di presentarsi a breve, medio e lungo termine.
Se fra gli adulti si stima che appena il 5 per cento dei malati di tumore possa, per diverse ragioni, essere reclutato in una sperimentazione clinica, per i bambini non è così: molti di loro – in effetti quasi tutti – hanno la possibilità di entrare a far parte di una sperimentazione. Questo accade perché il numero di malati è piccolo e perché, in generale, i criteri di inclusione delle sperimentazioni pediatriche sono meno selettivi rispetto a quelli degli adulti, dove per esempio vengono scartati i soggetti che presentano altre malattie o problemi concomitanti o che sono molto fragili a causa dell’età.
“I tumori dei bambini sono ‘macchine’ che funzionano diversamente da quelle degli adulti e, soprattutto, la ricerca pediatrica per sua natura deve prestare molta più attenzione alla vita che attende il paziente per anni e anni a venire” spiega Maura Massimino, specialista in ematologia e in pediatria che dirige la Divisione di oncologia pediatrica dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. Infatti i pazienti pediatrici in molti casi avranno 70 o anche 80 anni da vivere dopo la guarigione, e di questa aspettativa di vita bisogna tener conto nella scelta delle cure: “Quando ho iniziato a lavorare in questo istituto, 34 anni fa, ho visto non pochi casi che dovevano essere trattati con amputazioni molto invalidanti, perché ne andava della sopravvivenza. Oggi si riesce a fare molta più attenzione agli effetti collaterali sia acuti sia a lungo termine, e a tutto ciò che può avere un impatto sull’autonomia e sul ritorno alla famiglia, alla scuola e alla socialità. Per questo facciamo in modo di stratificare l’intensità delle terapie in funzione dell’aggressività di ciascun tumore, alla ricerca del miglior equilibrio tra danno e beneficio”.
Purtroppo, nonostante i tanti progressi, rimangono tumori per cui una cura è ancora lontana, sia per le caratteristiche di aggressività del tumore stesso sia per la zona del corpo in cui la neoplasia si manifesta, e in questi casi l’obiettivo della ricerca è rimasto quello di allungare il più possibile la sopravvivenza: “Sono i casi che un ricercatore ricorda di più” commenta Massimino, che da anni cerca di trovare le risorse economiche necessarie ad avviare nuovi protocolli di cura al di fuori di quelli previsti dalle case farmaceutiche, affinché i pazienti possano entrare a far parte di una rete internazionale così da accedere a cure all’avanguardia. Dare il via a un nuovo protocollo di ricerca indipendente costa circa 500.000 euro in spese gestionali e assicurative, che non sono coperte dai classici bandi di ricerca.
In qualche misura, sia il timore che spesso caratterizza l’esperienza della malattia sia, soprattutto, le cure lasciano qualche segno tangibile: chi sopravvive può col tempo vedere insorgere problemi polmonari, cardiaci, psicologici, metabolici o dover affrontare un calo della fertilità: “Non ci possiamo prendere cura solo dell’organo ammalato: tutte le branche della medicina sono necessarie per i nostri pazienti con un approccio a 360 gradi, che prosegue per decenni dopo la dimissione, e richiede una rete di competenze” spiega Maura Massimino. Per garantire che anche a distanza di anni chi ha sconfitto il tumore possa affrontare al meglio ogni evenienza è stato messo a punto in tempi recenti il “passaporto del guarito”: un programma di follow-up che coinvolge il medico di medicina generale ed è personalizzato sulla base del rischio di possibile tossicità tardiva. Il documento riporta gli esami da sostenere e i tempi per il monitoraggio a lungo termine in modo da assicurare interventi tempestivi in caso di comparsa di effetti collaterali anche dopo molto tempo.
Lo stesso strumento fornisce dati utili alla ricerca sulla prevalenza e il tipo di effetti tardivi che si manifestano in chi è sopravvissuto a un tumore pediatrico.
Di alcuni tumori che non rispondono adeguatamente ai farmaci e neppure alla radioterapia si occupa Francesco Marampon, medico e ricercatore dell’Università Sapienza di Roma, che segue un approccio innovativo.
La sempre maggiore precisione dei macchinari per la radioterapia a fasci esterni permette infatti di ridurre gli effetti collaterali acuti, che in anni passati spingevano molti pazienti a interrompere il ciclo di sedute di terapia. Tuttavia alcuni tumori pediatrici resistono fin da subito alla radioterapia, e altri sviluppano una resistenza in corso di trattamento.
Marampon sta conducendo, grazie a un finanziamento AIRC, una ricerca su potenziali farmaci radiosensibilizzanti, ovvero in grado di agire selettivamente sulle cellule tumorali e renderle più vulnerabili alle radiazioni, in modo da ottenere un miglioramento del controllo del tumore con dosi inferiori di raggi, e quindi minore rischio di tossicità. “La radiobiologia è una disciplina ancora di nicchia ma promettente” spiega. Una delle scommesse è quella di riuscire a modulare l’uso delle radiazioni in modo da attivare anche la risposta del sistema immunitario nei confronti dei tumori cosiddetti “freddi”, cioè i tumori contro i quali normalmente non reagisce. La sua ricerca è per ora in fase preliminare, limitata allo studio di modelli in vitro e di modelli animali, ma se l’approccio si dimostrerà efficace la tecnica potrebbe essere utilizzata nei pazienti e portare grandi benefici.
“Nei tumori solidi dei bambini, di cui mi occupo, c’è senza dubbio un’importante componente genetica che richiede molta ricerca mirata, perché i meccanismi che caratterizzano queste malattie sono spesso assai più complessi rispetto alle mutazioni che hanno permesso di ottenere le terapie a bersaglio molecolare usate in alcuni tumori comuni negli adulti” spiega Katia Scotlandi, che dirige il laboratorio di oncologia sperimentale dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna. “Occorre imparare a conoscere meglio le caratteristiche del dialogo tra cellule tumorali e microambiente e non solo le mutazioni che causano o tengono in vita il cancro. Ogni tumore ha il suo tallone di Achille, ma i tumori pediatrici sono rari ed eterogenei, cioè composti da cellule diverse tra loro, ciascuna delle quali può avere mutazioni (e quindi sensibilità ai farmaci) differenti. Anche per questo c’è poco interesse da parte delle aziende farmaceutiche a investire in studi di base che porteranno a cure riservate a un numero molto ridotto di soggetti” conclude. “Di conseguenza il ruolo della ricerca indipendente, quale quella finanziata da AIRC, è più che mai cruciale.”
Fabio Turone (Agenzia ZOE)