Curare meglio il coronavirus nei malati di cancro

Ultimo aggiornamento: 4 maggio 2020

Curare meglio il coronavirus nei malati di cancro

“Quando a marzo è esplosa l’epidemia di Covid-19 in Italia, ci siamo accorti che, a parte qualche sporadica pubblicazione dei colleghi cinesi, mancavamo di informazioni attendibili su come proteggere i nostri pazienti malati di cancro e sull’impatto che la malattia avrebbe potuto avere su persone così fragili”. Così ha esordito Marina Garassino, responsabile del Reparto di oncologia medica toraco-polmonare dell’Istituto nazionale dei tumori (INT) di Milano, al congresso dell’American Association for Cancer Research (AACR) che, per la prima volta nella storia, si è tenuto in forma virtuale per l’impossibilità di raggiungere gli Stati Uniti dove l’evento si tiene ogni anno. E a collegarsi sono stati quasi 60.000 oncologi da tutto il mondo: la sessione più frequentata dell’intero convegno, dedicata a fare il punto sulle conoscenze acquisite in questi due mesi.

Sicuramente più fragili

“Due mesi sembrano un lasso di tempo molto breve, e in genere lo sono, ma in realtà stiamo imparando velocemente” spiega l’oncologa italiana che, a metà marzo, ha lanciato una piattaforma internazionale per raccogliere dati e rispondere alla domanda: che cosa sappiamo delle relazioni tra il cancro al polmone (e le malattie oncologiche in generale) e l’infezione da coronavirus? Il 28 aprile, al meeting di AACR, sono stati presentati i primi risultati. “Una metanalisi internazionale, che probabilmente sottostima i dati, ci dice che solo una percentuale tra il 2 e il 3 per cento dei malati di Covid-19 ha il cancro, ma ci vogliono più studi. In tutti i casi però emerge che il cancro, insieme ad altre malattie croniche, è un fattore di rischio per le forme più gravi dell’infezione”.

Per questa ragione tutte le maggiori società scientifiche hanno prodotto linee guida per spiegare agli oncologi come proteggere i propri pazienti. “Eravamo pronti ad affrontare un’emergenza di pochi giorni, non una che durerà mesi, se non anni” continua Garassino che spiega come l’approccio ormai condiviso da tutti gli esperti prevede di considerare il rischio di infezione in tutte le decisioni cliniche riguardanti pazienti oncologici.

Informazioni disponibili per tutti

Nel frattempo, in meno di un mese, grazie al supporto tecnologico dei colleghi americani dell’Università Vanderbilt di Nashville, il registro mondiale per i malati di tumore toracico con COVID-19 ha raccolto 267 casi da centri in tutto il mondo.

“La scheda è strutturata per fornire informazioni preziose sulla relazione tra tumore e infezione da coronavirus, e ci aiuterà a capire se alcune terapie oncologiche normalmente in uso sono più o meno indicate nei malati di COVID, e anche quali tra le terapie via via sperimentate contro il virus saranno efficaci nei nostri pazienti” spiega Garassino.

Il registro è stato pensato per partire immediatamente e per conservare la totale indipendenza dall’industria farmaceutica, aspetto che Garassino ha potuto apprezzare in occasione dei due grant AIRC ricevuti in passato: “Oggi più che mai è importantissima la ricerca indipendente, e sono fondamentali i registri oncologici pubblici, che forniscono dati e osservazioni utili a tutti, inclusi i ricercatori impegnati nella ricerca di base” spiega.

Le informazioni provenienti dall’analisi dei primi 200 casi sono a disposizione di tutti. “Nella stragrande maggioranza dei casi raccolti si tratta di persone con tumori polmonari non a piccole cellule. In 7 casi su 10 si tratta di maschi, che sembrano essere più a rischio di infettarsi delle donne riflettendo quanto accade nella popolazione generale. Da un primo confronto la mortalità è più alta rispetto a quanto emerge da altri studi effettuati in Cina o in Francia. Questo ci dice che è troppo presto per giungere a conclusioni sulla reale mortalità legata all’infezione; inoltre il nostro campione è costituito da pazienti molto gravi, dato che al momento si ricoverano solo i malati che non possono essere curati al domicilio. Dobbiamo continuare a fare ricerca, studiando anche gli effetti che le terapie possono avere sugli esiti dell’infezione nei diversi stadi del cancro. Solo così potremo prendere insieme ai nostri pazienti decisioni più sicure mettendo assieme anche informazioni che provengono da altri studi, per esempio il fatto che, per chi si infetta, le due settimane dopo una chemioterapia sono le più pericolose”.

  • Agenzia Zoe