Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
L'oncologia comparata è un ambito di ricerca in pieno sviluppo. Studia i tumori che compaiono naturalmente negli animali, in particolare nei cani, per aiutare a guarire loro ma anche i loro padroni.
Melanomi, sarcomi dei tessuti molli (specialmente nei san bernardo), linfomi (specialmente nei golden retriever), osteosarcomi: sono i tumori che più comunemente colpiscono i cani e che, da alcuni anni, hanno attirato anche l'attenzione dei ricercatori oncologici. Nel 2005, infatti, è stato sequenziato interamente il genoma del cane, permettendo agli scienziati di studiare anche dal punto di vista molecolare i tumori che si formano spontaneamente nell'animale, per trarne conclusioni utili anche all'uomo.
"Gli animali d'affezione, come il cane, hanno una vita più breve di quella umana" spiega Nicola Baldini, che all'Istituto ortopedico Rizzoli (IOR) di Bologna conduce una ricerca finanziata da AIRC per lo studio dell'osteosarcoma spontaneo nei cani. "Questo ci permette di studiare in modo accelerato l'evoluzione della malattia, che è simile a quella dell'uomo, e anche gli effetti delle cure".
Quest settore di ricerca si chiama oncologia comparata (perché confronta le caratteristiche dei tumori animali con quelle dei tumori umani) ed è sviluppato soprattutto negli Stati Uniti, attraverso una rete che viene coordinata e finanziata dal National Cancer Institute. "Negli Stati Uniti e anche in altri Paesi, come il Regno Unito, il pubblico è molto sensibile al tema, con diverse iniziative di raccolta fondi promosse da associazioni private" spiega ancora Baldini. "A parte l'osteosarcoma del cane, le neoplasie spontanee negli animali domestici di maggiore interesse sono il carcinoma della mammella, il melanoma e il carcinoma squamocellulare del cavo orale, il linfoma non Hodgkin e i sarcomi dei tessuti molli. Anche in Italia si sta sviluppando un interesse in questo ambito, che in parte nasce dalla creazione di registri dei tumori animali, attivi in alcune Regioni, molto utili per fornire informazioni di tipo epidemiologico, esattamente come accade per l'uomo".
Lo studio comparato dei tumori nell'uomo e negli animali domestici offre una miniera d'informazioni, data la vicinanza genetica fra mammiferi e considerando che in entrambi i casi vi è un'esposizione a fattori ambientali simili, come inquinanti o alimenti.
"Si tratta di informazioni complementari a quelle dei classici studi sperimentali su tessuti o in vivo sui topi. In primo luogo vediamo il tumore in tutte le sue caratteristiche, comprese la forma e la modalità di diffusione nell'organismo. Inoltre, a differenza di quanto accade nei modelli murini, si tratta infatti di animali che si sono ammalati come ci ammaliamo noi, nel corso della loro vita normale. Questo ci permette di studiare aspetti che completano il quadro ottenuto con modelli meno naturali" spiega ancora Baldini.
Lo studio condotto allo IOR riguarda i sarcomi dello scheletro e dei tessuti molli. Oltre alle cellule del tumore, queste neoplasie presentano anche una componente di cellule del sistema immunitario legate a fenomeni infiammatori dovuti alla malattia stessa e, paradossalmente, anche ad alcuni farmaci. "È cosa nota che l'infiammazione e il microambiente intorno al tumore possano essere importanti per il suo sviluppo" dice Baldini. "Lo studio che abbiamo intrapreso, in particolare, ci farà capire se la presenza di acidosi nei tessuti intoro al tumore alimentata dall'infiammazione, sia un fattore predisponente all'insorgenza delle metastasi. Inoltre proveremo a intervenire sull'acidità del microambiente tumorale con integratori o farmaci, in modo da ridurre il numero di ricadute". Anche lo studio farmacologico partirà nell'animale per poi, eventualmente, approdare all'uomo. "I protocolli di cura per gli umani sono ovviamente molto rigidi, approvati a livello nazionale e pagati dal Sistema sanitario nazionale. Negli animali di affezione possiamo invece provare a introdurre farmaci nuovi con meno vincoli. Inoltre, dal momento che l'incidenza della malattia è 20 volte superiore a quella sull'uomo e che le cure sono a carico dei proprietari dell'animale, ogni innovazione che possa allungare la vita del proprio compagno a quattro zampe è in genere benvenuta".
Lo studio nell'osteosarcoma spontaneo del cane è condotto in collaborazione con il gruppo di medici veterinari guidati da Ombretta Capitani dell'Università di Bologna e da Paolo Buracco all'Università di Torino. Sono loro a curare direttamente gli animali domestici, a operarli e a mandare i campioni al gruppo di Baldini.
"Come nell'uomo l'obiettivo primario dello studio clinico nel cane è curare la malattia, possibilmente migliorandone la prognosi e in ogni caso senza arrecare alcun grado di sofferenza nel paziente" conclude Baldini. "Il trasferimento delle conoscenze dall'ambito medico umano a quello veterinario e viceversa, è un elemento essenziale e un'occasione preziosa per aumentare le nostre capacità di cura".
Negli anni Ottanta la ricercatrice Frances Gulland e il suo gruppo del Marine Mammal Center di Sausalito, in California, si accorsero che un numero sempre maggiore di leoni marini spiaggiava sulla costa, in stato terminale o già di decesso per un cancro del tratto urogenitale, e che questo tumore stava diventando la maggior causa di morte per questi animali. John Hammond del BBSRC Pirbright Institute nel Surrey, in Gran Bretagna, ha studiato i campioni prelevati dagli animali per identificare una possibile causa genetica. Nel 2014 ha pubblicato i risultati, dimostrando che il responsabile è un gene mutato, Heparanase 2, presente anche in molti tumori umani. Troppo tardi per intervenire sui leoni marini, ma ancora in tempo per cercare farmaci mirati che possano salvare gli umani e per studiare eventuali concause, come gli effetti dell'inquinamento sugli individui portatori della mutazione.
Altri grandi animali, come gli elefanti, sembrano invece protetti dallo sviluppo dei tumori. Come mai? Anche in questo caso la risposta è venuta da uno studio genetico condotto da Lisa Abegglen e collaboratori dell'Università dello Utah e pubblicato nell'ottobre del 2015 sulla rivista JAMA. Mentre noi umani abbiamo due copie del gene TP53 (e se una non funziona sviluppiamo la sindrome di Li-Fraumeni che predispone allo sviluppo di molti tumori), gli elefanti ereditano da ciascun genitore almeno 20 copie del gene. La ricerca conferma che TP53 è un gene chiave per regolare la proliferazione delle cellule ed è anche l'arma segreta degli elefanti che, con la loro massa, sarebbero altrimenti condannati a morire tutti di cancro.
Agenzia Zoe