Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Capire da un articolo di giornale se una certa ricerca è attendibile o utile per chi legge è tutt'altro che semplice, ma c'è chi ha stabilito alcuni criteri di base.
Chi legge abitualmente giornali e riviste sa che i titoli non sempre riflettono in modo equilibrato il contenuto degli articoli e che non di rado mettono in luce solo uno dei molti aspetti che contribuiscono a descrivere l'argomento, quello più attraente o, viceversa, quello più spaventoso.
Questo meccanismo è particolarmente pericolo quando si parla di salute e malattia, ma è noto da tempo e basta esercitare un sano scetticismo per non restarne vittime. Molto più difficile è capire se l'articolo vero e proprio fornisce gli elementi che occorrono per valutare fino a che punto una notizia è significativa e - cosa ancora più importante e delicata - se quanto affermato vale per chi legge o per il conoscente malato per il quale ci preoccupiamo.
In un giornale il titolo ha ovviamente la funzione di descrivere il contenuto dell'articolo, ma ha anche, e sempre di più, il compito di attirare l'attenzione dei potenziali lettori. Lo stesso dicasi di titoletti, strilli e infografiche. Ciascuno di questi elementi sintetici può essere fuorviante perché spesso si basa sulla convinzione che il quadro completo ed equilibrato dell'argomento emergerà dall'articolo vero e proprio, che non tutti leggono. Inoltre, secondo la complessità del tema, anche l'articolo può risultare poco soddisfacente. Esistono però alcune conoscenze di base che ciascun lettore dovrebbe avere per poter valutare la qualità di ciò che legge.
La ricerca scientifica produce ogni giorno, in tutto il mondo, un'enorme quantità di risultati e ogni giorno scopre qualcosa: molte di queste scoperte sono importanti per il progresso della scienza perché avvicinano al giorno in cui si troverà una nuova cura o mettono in guardia su un potenziale pericolo. La loro importanza è sancita dalla pubblicazione su una rivista scientifica, che appone il proprio "certificato di qualità" e ne diffonde i risultati, condividendoli con gli altri scienziati.
A questo punto le ricerche sono pronte per essere, eventualmente, riprese anche dai media. È in questa fase che a volte vi è un problema, perché non è quasi mai semplice il compito di chi deve valutare il significato pratico, per i sani e per i malati, di ciascuna di queste scoperte.
Il Ministero della salute inglese ha pubblicato di recente una breve guida alla lettura degli articoli di salute, in cui suggerisce alcune specifiche domande da porsi per interpretare al meglio ogni nuovo articolo. Questa sorta di check list è stata ripresa anche dalla prestigiosa rivista Nature.
La pubblicazione di una ricerca su una rivista scientifica assicura un controllo di qualità da parte di qualificati esperti del settore (la cosiddetta "revisione tra pari", in inglese "peer review"). Quindi il primo quesito cui si deve cercare risposta in un articolo che parla di una nuova scoperta è proprio quello: è uno studio pubblicato su una qualificata rivista scientifica? Se viene presentato alla stampa prima che al resto della comunità scientifica, è legittimo pensare che le sue conclusioni siano quantomeno premature.
Anche la pubblicazione su una rivista, tuttavia, non è ancora sufficiente: molto spesso, infatti, si leggono titoli che scatenano allarmi o entusiasmi sulla base di ricerche condotte solo su cellule in vitro, o magari sugli animali.
Il farmaco X aiuta davvero a prevenire quella data malattia? Ogni giorno vi sono notizie su nuove terapie o nuovi consigli legati agli stili di vita: la prima cosa da verificare è se gli studi in questione sono stati compiuti sull'uomo (e su che tipo di campione, perché i risultati ottenuti su un gruppo di trentenni non sono necessariamente trasferibili a un gruppo di over 70), su modelli animali o su colture cellulari.
È questo il classico esempio in cui tutti gli attori coinvolti - dal ricercatore, agli esperti chiamati a commentare, al giornalista fino ai lettori - devono esercitare cautela: il risultato dello studio può essere molto stimolante e il filone di ricerca immensamente promettente e, ciò nonostante, l'impatto immediato, concreto, sulla vita di tutti i giorni di sani e malati può essere nullo, in attesa di approfondimenti e studi sull'uomo.
La conoscenza scientifica in ambito medico progredisce infatti grazie a una gran quantità di ricerche, ciascuna delle quali chiarisce solo alcuni aspetti della questione, costruendo un edificio che viene spesso rappresentato in forma di piramide, con alla base le riflessioni teoriche e le ricerche precliniche - condotte in vitro e poi negli studi sugli animali - e solo successivamente gli studi sull'uomo, con al vertice quelli che, con sofisticati strumenti statistici, li riassumono tutti.
È normale, e viene messo in conto da chi fa ricerca, che molti dei risultati osservati in vitro non siano confermati dagli studi successivi. Ciò non toglie che ciascun passaggio sia utile a ridurre i rischi per i primi pazienti che applicheranno in concreto la nuova scoperta.
La piramide mostra che anche nella ricerca sull'uomo non tutti gli studi sono uguali. In termini generali si può dire che più il campione esaminato è ampio, più affidabili sono i risultati.
Questa approssimazione non tiene però conto del fatto che le diverse modalità di fare ricerca (in termine tecnico si parla di "disegno" dello studio) sono più o meno adatte a rispondere a determinate domande.
Se si studia un nuovo farmaco o l'effetto di un inquinante sulla salute, è essenziale la presenza del cosiddetto "gruppo di controllo", un insieme di soggetti che non ha ricevuto il farmaco in sperimentazione o non è stato esposto al fattore di rischio di cui si vuole quantificare la pericolosità. Se un articolo non fornisce questa informazione, è difficile che permetta di rispondere alle domande successive: i due gruppi sono composti da persone in tutto simili tranne per l'esposizione che si vuole studiare? Sono sufficientemente numerosi per far emergere differenze significative? Sono domande tecniche che non hanno una risposta semplice: in generale se l'effetto cercato si verifica spesso occorrono campioni meno numerosi e un periodo di osservazione più breve, rispetto a quando si cerca di studiare un evento raro. Il perché è presto detto: se l'evento è frequente, è più facile osservarlo anche in un gruppo piccolo e quindi è più facile verificare eventuali differenze rispetto al gruppo di controllo. Anche la durata dello studio, per la stessa ragione, può essere più breve.
In caso di nuove terapie, è importante anche sapere se lo studio è stato condotto "in cieco", cioè se pazienti e medici non sanno a quali pazienti è stato dato il nuovo farmaco e a quali un placebo o un farmaco più vecchio. Questo accorgimento è necessario per evitare il cosiddetto effetto placebo, una sensazione soggettiva di efficacia legata alla fiducia che abbiamo a priori in una cura nuova o in una vecchia. Questo tipo di fiducia a priori non colpisce solo i malati, ma anche i medici, che possono inconsapevolmente influenzare la percezione del paziente. Per questo la maggior parte degli studi seri su nuovi farmaci viene fatta "in doppio cieco": ciò significa che né il paziente né il medico sanno se la terapia è quella nuova o quella vecchia e, in tal modo, possono giudicarne gli effetti senza pregiudizi.
Quando un articolo afferma - per esempio - che un farmaco riduce il rischio di infarto, è bene cercare di capire esattamente che cosa è stato misurato al termine dello studio. Se i ricercatori hanno contato il numero di infarti in due gruppi, in tutto simili tranne che per l'uso del farmaco stesso, e hanno seguito i partecipanti per un numero congruo di anni, l'affermazione è legittima. È invece un po' più stiracchiata quando i medici, anche per ragioni di tempo e costi, si limitano a osservare una riduzione della pressione arteriosa. In questo secondo caso è plausibile che con la riduzione della pressione si riduca anche il rischio di infarto, ma non è detto che questo avvenga, né che avvenga in misura significativa, perché il livello della pressione è solo un indicatore indiretto.
Infine, tutte le volte che c'è di mezzo un prodotto - che sia un farmaco o un esame diagnostico - il vademecum del Servizio sanitario inglese invita a chiedersi da chi è finanziata la ricerca. Anche le ricerche sponsorizzate dalle aziende possono essere condotte con grande rigore scientifico, ma è assodato che quelle finanziate con fondi pubblici - o da organismi indipendenti come AIRC - sono quelle che forniscono i risultati più affidabili.
Il "valore" di uno studio scientifico che riguarda la salute dipende dalle modalità con cui viene condotto. Idee e opinioni personali sono utili ma hanno un bassissimo livello di scientificità (anche quando sono riportate da un esperto del settore, a meno che non riporti a sua volta i risultati di studi più strutturati). Appena sopra stanno gli studi di laboratorio e su animali: sono necessari, ma sono solo la premessa degli studi sull'uomo. Come una rondine non fa primavera, così un singolo caso di guarigione può essere scientificamente interessante ma non è generalizzabile. Se i casi sono più di uno, allora la solidità della prova aumenta, ma una buona sicurezza si ottiene solo se i casi di guarigione vengono confrontati col destino di un gruppo di controllo che non è stato trattato. Ancora più utile è lo studio in cui l'assegnazione dei pazienti al gruppo trattato con la cura nuova o con quella vecchia è casuale (randomizzato) e non è noto né al paziente né al medico (doppio cieco). Infine, quando si vuole fare il punto di quanto hanno detto su un certo argomento le varie ricerche, si può ricorrere a due strumenti, le revisioni sistematiche e le metanalisi, che, anche con l'aiuto della statistica, forniscono una stima generale della solidità delle prove a favore o contro un certo intervento.
Fabio Turone